Noi ragazzi a “pestàr l’ùa” con i piedi sporchi

Eravamo alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso e i bambini facevano a gara per “pestàr l’ùa”. Mi è balzata alla mente quello che è anche un mio trascorso ammirando la bella foto di Giovanni Skulina, allora fotografo in Torbole. Si era alla fine di settembre e le temute scuole andavano a iniziare il primo ottobre. Erano quelli i giorni di vendemmie antiche, ormai dissolte dal trascorrere del tempo. Di buon mattino si metteva all’opera una squadra di lavoranti. Erano intere famiglie del paese con, accanto agli uomini, donne e bambini e cani. Facevano ressa sotto i filari di viti: fazzoletti in testa, chiacchiericcio fitto, braccia in alto, colpi di forbice (fòrbes) per tagliare i grappoli (piche). Le riponevano in ceste (zestèi) e si massaggiavano braccia e lingua. Nel frattempo era arrivato nell’aia di casa un carro tirato da due buoi (car coi boi) sul quale c’erano due enormi tini di legno (brènte, brentóni e, i piccoli parenti, i brentèi). Sulla parte alta del tino stava appoggiata di traverso una cassa di legno, aperta sopra, detta “pestarola” o “mostarola”. Era il luogo “del pestaggio”. Nel fondo la pestarola aveva una graticella di assicelle di legno con fessure che, nel corso del pestaggio dell’uva, lasciavano passare il mosto che colava nel brentóm. Come arrivava l’uva nella pestarola? Facevano la spola, tra le viti e il carro col brentóm, dei contadini che portavano sulle spalle le bigonce (conzàl). Salivano la scala appoggiata al carro, arrivavano sulla sommità del brentóm, piegavano la schiena e la conzàl rovesciava il suo carico d’uva nella pestarola. Era il momento, mio e dei ragazzi come me. Si era in piedi, nella pestarola, di solito in mutande. Ed è qui che si vedeva il tuo valore. Stantuffavi come un ossesso, ginocchia alte, su e giù e i grappoli schiacciati mollavano il mosto che finiva di sotto. Tu ti tingevi di un bel rosso scuro, appiccicoso e, così conciato per le feste, te la godevi. A quel punto ti sedevi sul bordo e, tirando una cordicella, spostavi il fondo di assicelle. Così le graspe precipitavano di sotto e andavano a fare, nel brentóm, un isolotto nel mare di mosto. Api, mosche, mosconi, “zórle”, tafani allietavano la scena, banchettavano e pungevano a caso.
La tecnica del pestaggio: c’erano “i puristi”, quelli che ti facevano lavare i piedi, e i “zavati”, cioè quelli che te li lasciavano tenere ben sporchi di terra, perché, dicevano, il vino veniva più sano e corposo. Io ero per i zavati. Poi ero contento perché il contadino, per dire che ero stato bravo, mi diceva: “Eh! can da l’ùa!” (traduzione: “Eh! tu furbetto!”). Nei giorni successivi il mosto finiva a fermentare in grandi botti, nelle cantine umide, scavate sotto il piano delle case. Questo rituale si ripeteva di aia in aia, di campagna in campagna. Oltre al carro con i buoi si spostava anche la tribù dei raccoglitori, ai quali premeva la pausa della merenda: pane, salame, Idrolitina e vim pìcol. Nei paesi molti contadini facevano così la vendemmia “in casa”. Il prodotto era orgoglio e reddito. Il contadino portava l’acquirente in cantina, si spillava il vino nuovo dalla botte, si alzavano i bicchieri e si diceva “alla salute”. La sera, dopo infiniti assaggi, la salute era euforica. Si riempivano bottiglie e bottiglioni che allietavano le case e, con il vino da Messa, anche le chiese. Sono sicuro che ci sono in giro molti ex ragazzi che, a questi ricordi, sentono i piedi che fremono e, se ce la fanno, pestano i tappeti, che è sempre ottima cosa.
Vittorio Colombo










