L’ultimo cruccio di Lino Gobbi: il mancato riconoscimento della prigionia in Germania
A pochi giorni dai funerali di Lino Gobbi di Arco, l’amico Alessandro Parisi ha estratto dal cassetto l’ultima lettera che il reduce Alpino aveva scritto nell’agosto dello scorso anno, predisposta per essere inviata a qualche Autorità di peso onde riportare alla luce un suo problema al quale mai era stata data una risposta positiva dagli Uffici competenti.
Lino Gobbi ha ricevuto tante onorificenze, medaglie, attestati, ma mai quel riconoscimento della sua prigionia in Germania, un attestato che lui desiderava tantissimo non per un fatto prettamente venale, ma semplicemente per una questione di giustizia, di verità.
Ne è testimone un vero e proprio dossier, da lui composto, che raccoglie tutte le istanze fatte a più riprese, e in tanti anni, ma sempre rigettate per cavilli burocratici.
Questo suo scritto è anche una ennesima testimonianza della sua indole personale grazie alla quale ha suscitato rispetto, considerazione, affetto nei suoi riguardi da parte della Comunità non solo locale e da tutto l’universo Alpino.
“Questa è la mia ultima lettera su quell’enigma. Non sapendo a chi indirizzare la mia ultima angoscia, mi rivolgo a Lei che già conosce la mia lunga e penosa storia già lontana, che ha lasciato le stigmate ancora visibili sulla mia povera figura d’un ormai vecchio Alpino.
Si tratta di quella mia desolante esperienza alla ricerca di un giusto riconoscimento per chi ha subito le tribolazioni della prigionia in Germania. Era l’indimenticabile 8 settembre 1943.
Vado subito al nocciolo della questione: anche il sottoscritto, ex internato, ha presentato molto tempo addietro la relativa domanda per quel riconoscimento. Da ricordare che ancora nei primi mesi mi avevano affibbiato ben quattro anni di carcere duro, cioè lavori forzati, e “grazie” a quel fucile che non aveva sparato. Ero nel carcere tedesco di Butzbach e lì dovevamo riparare i binari ferroviari. Avevo suscitato simpatia in tutti, perché sapevo lavorare duramente.
Di regola i condannati non potevano uscire dal carcere, però in certi casi sì, e questo avveniva non indicando il prigioniero con nome e cognome, ma semplicemente con il suo numero, e così in tante altre circostanze, anche quelle da un punto di vista burocratico. E proprio qui è nato tutto quel “trambusto”, perché io non risulterei nell’elenco dei deportati in Germania ai tempi di Hitler. Così la Corte dei Conti, senza chiedere, senza fare le opportune e necessarie verifiche, per ben 10 volte non ha accettato la mia domanda.
Mentre Le sto raccontando questa mia storia vagando col cuore fra mille ricordi, mi raggiunge una stupenda melodia che dice: “Non ti ricordi quel lungo treno… che andava ai confini… Pareva volesse salutare il mattino d’una primavera strana, soffuso da una luce quasi di Verità cercata affannosamente”, una Verità, anzi, la ricerca di una Verità che non mi lascia respirare, una Verità che voglio vedere riconosciuta. E allora non posso col pensiero e con queste parole povere non ricorrere a Lei, perché so che ha grande capacità di valutare ogni cosa. Le chiedo perdono per questo mio ardire, per questo mio ricorso a Lei, ma non posso morire senza che mi venga dato quel riconoscimento. Per anni ho dato una risposta a quell’enigma, anche alla sorda Corte dei Conti, ed oggi, che le lunghe ombre della sera della mia lunga giornata si stanno allungando, vorrei finalmente vedere soddisfatta quella mia richiesta, anche perché non posso dimenticare i patimenti e le torture subite.
Ringrazio la Bontà Celeste che mi ha donato la grazia di poter resistere fino alla fine, nonostante la fame e il freddo, con la speranza che quella stessa Bontà Celeste spinga la Corte dei Conti a ritornare sui suoi passi, rimediando ad un errore che io non riesco a giustificare e a sopportare. Vi prego! Cancellatelo!
Lino Gobbi, Alpino della Julia”.