Addio a Silvio “Taba” Bertamini, grande interprete di un calcio d’antan

Redazione11/05/20234min
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Il vecchio guerriero si è arreso ad una malattia genetica rara, che stava combattendo da una ventina d’anni, pochi giorni prima di tagliare il traguardo delle 88 primavere. David Trueba, famoso scrittore spagnolo, scriveva che il calcio è l’unica religione a non avere atei. Se è vero, Silvio Bertamini, Taba per tutti, è stato uno dei fedeli più assidui e osservanti di questa dottrina che ha abbracciato fin da piccolissimo inseguendo una palla sghimbescia, ricavata dalla vescica di un maiale, nel piazzale della chiesa di Bolognano.
Il suo idolo era Doro Maino che, con quel suo sinistro vellutato, aveva sfamato la sua famiglia negli anni della guerra facendosi pagare le sue prestazioni calcistiche con generi alimentari. Ma il professionismo Taba l’ha solo sfiorato perché quelli non erano gli anni giusti, perché le offerte venivano da traballanti società del sud troppo lontane da casa e da quel piazzale dove, diventato giovanotto, aveva conosciuto la moglie Franca impegnata in un corso di cucito all’Oratorio.
E così, ad appena 16 anni, finì all’Olivo dove all’inizio, visto che era ambidestro e forte di testa, lo impiegarono come centravanti. Gol ne faceva, ma davanti era come un orso in gabbia. Lui amava spaziare per il campo, servire assist di pregio, e, di tanto in tanto, esibirsi nella sua specialità che era il tiro al volo, sintesi di precisione e potenza. “Gol” gridava prima ancora che la palla gonfiasse la rete e non era – lui che in campo era un “cattivo” – un modo subdolo per dileggiare l’avversario. Quando sento che ho fatto il movimento giusto, che ho caricato bene la gamba – spiegava – la palla non poteva finire che lì.
Come centrocampista si è conquistato le maglie del Rovereto e poi del Trento, che al tempo erano le società di riferimento della provincia, ma soldi ne ha visti pochi. Qualche sostanzioso premio partita che lo faceva rifiatare, lui che era operaio in una fabbrica di materie plastiche, ma niente di abbastanza consistente da farlo svoltare. Tornò all’Olivo, forse allora già Arco, e, da “libero”, fu tra i protagonisti di una sfortunata serie D. Taba, che non faceva sconti a nessuno, aveva radicatissimo un suo senso della giustizia tanto da calciare ostentatamente verso la Sarca un calcio di rigore che egli riteneva immeritato nonostante la sua squadra avesse l’acqua alla gola.
Appese a 36 anni le scarpe al chiodo e si dedicò a trasferire, da allenatore, il suo notevole bagaglio tecnico anche a giovani che non parlavano la stessa sua lingua. Tutti bravi ragazzi – raccontava – ma di giocatori veri nella Busa io ne ho visti solo due: Piergiorgio Lutterotti e Pierpaolo Bresciani. Noi, oggi, ci sentiamo di aggiungere a questa elite lui, Silvio “Taba” Bertamini, un talento nato troppo presto, troppo vicino agli anni magri del dopoguerra, per poter fiorire sulle ribalte che contano.

Nello Morandi

 


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