Truffe ai Tedeschi, orologi patacche e giacche di cartone
“Herr Franz, guarda qui. Orologio d’oro. Affare, diecimila lire!”.
Gardesana Occidentale, una delle tante piazzole ai bordi della strada. La Volkswagen è ferma. Il turista tedesco rigira in mano un orologio splendente per presunti riflessi dorati. Il tipo, simpatico come un incantatore di serpenti, è, a modo suo, un artista della truffa. Uno dei tanti.
Imperversava dalle nostre parti negli anni Sessanta, ma anche nei decenni successivi, un plotone di “pataccari” imbonitori, prestigiatori, fantasisti del raggiro, degni emuli di quel Totò che riuscì, in un film, a vendere la Fontana di Trevi. La Gardesana, ma anche altri posti dell’alto Lago e di Riva, era un paradiso per allocchi, soprattutto di nazionalità teutonica. Non è che con questo si voglia sminuire le capacità di giudizio dei turisti di oltre Brennero, ma diciamo pure che i vari Franz erano come delle pavide galline in un allevamento di volpi. I “pataccari” piazzavano orologi d’oro tarocco, cineprese col mattone dentro, macchine fotografiche con l’elastico che faceva “clic”. Il buon Franz, quello dell’orologio d’oro che doveva valere perlomeno centomila lire e che lui, che culo!, poteva averlo per sole diecimila lirette, con sguardo ebete accostava l’orologio all’orecchio della signora Helga, anche lei in brodo di giuggiole di crauti. Il “pataccaro” ammiccava e, con mossettine, “aumma, aumma”, spiegava l’arcano del prezzo stracciato. Muoveva così le mani a mo’ di presa misteriosa, facendo intendere che era di provenienza dubbia. E, dunque, ecco l’affare per Herr Franz e la sua gentile signora Strudel. Affare fatto! E via. I coniugi, avviata la Volkswagen, maneggiavano l’orologio delle meraviglie. Che, d’incanto, schiattava. La vernice colorata colava su gonna e pantaloni, il vetro si apriva, le lancette ballonzolavano e compariva l’elastico che, all’interno, per il tempo necessario, teneva tutto l’insieme in bell’ordine.
Gli è che il pataccaro, esperto nel gioco delle tre carte, fatto sparire l’orologio simil-buono, aveva consegnato alla coppia frastornata un capolavoro di schifezza.
L’orologio era il “classico”. Ma anche cineprese e macchine fotografiche, e altre preziosità, andavano per la maggiore. Quando avveniva il passaggio di mano, soldi buoni in cambio di scatola vuota, ma appesantita da mattoncino, la frittata era bell’e che fatta. Narrano le cronache di quei tempi che a Riva Carabinieri e agenti del Commissariato erano allo stremo. Era una processione di teutonici che sporgevano denuncia. E chiedevano giustizia. Era però inutile recarsi sul luogo del misfatto. C’era, infatti, vorticosa circolazione di artisti della truffa che si spostavano, cantando come i sette nani in miniera. Quella con l’oro vero.
Ma c’è un altro classico delle fantasmagoriche truffe di quei begli anni squinternati. Come non ricordare, infatti, devozioni ed opere di misericordia dei famosi “giacchettari”? Vera corporazione, il fior fiore dell’arte del raggiro. Erano ad ogni piè sospinto sulla Gardesana, ma diventò famoso un posto dove oggi andrebbe eretta una cappella votiva al “Beato Giacchettaro”. Era lo slargo in viale Rovereto, dove, a ovest del Du Lac, parte la stradina che, correndo lungo il campo Benacense, porta ai Sabbioni.
Portellone del furgone aperto, appendiabiti in mostra carichi di bellissime giacche, vestiti e cappotti. Le macchine dei turisti si fermavano. Ed era un turbinio di manovre da sfilate di moda, inchini, un vortice di “togli e metti”, cori di “ohh” di meraviglia. Il buon Franz, eccitato, si trovava addosso una stupenda giacca in pelle che sembrava Ken Valentino, il marito di Barbie Rosengarten. Diecimila appena, giacca regalata. Solito teatrino. “Gut, sehr gut!”. Minacciava pioggia? L’atelier alla moda spariva d’incanto. Bastava una pioggerellina e la giacca piangeva miseria. Prima si afflosciava, poi si aprivano buchi e, con le maniche, cadevano le illusioni. L’odore di cartone bagnato è deprimente, soprattutto se ce l’hai addosso.
Vittorio Colombo