Questione di improvvisazione

Redazione03/08/20242min
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Per il Garda Jazz Festival, sono a un workshop di improvvisazione con Andrea Tarozzi, mi muovo praticamente come un gattino in un acquario e nonostante fosse scritto bene in chiaro che il livello era “per tutti” posso assicurare che hanno lasciato fuori perlomeno me.
Qui la gente sorride, maneggia i propri strumenti e sale e scende dalle scale con grazia e leggiadria… mentre io sono quella che, per farvela breve, prende l’ascensore.
Sono esperienze, ovviamente, e esperienze indubbiamente interessanti: lui, il Maestro, con pazienza serafica passa da un allievo all’altro ascoltando arpeggi e abbozzando sulle stonature, dà consigli, sposta mani e corregge posture.
Ogni tanto si siede al pianoforte e i miei sensi si ritemprano – sono qui per vedere da vicino come l’essere umano possa creare l’armonia partendo dal silenzio, col solo utilizzo di uno strumento musicale. Ci sono chitarre, fiati e percussioni, ma quando Tarozzi suona tutti di fermano ad ascoltare.
Io mi soffermo sulle sue mani che giocano tra toni e semitoni, le caviglie che tengono il ritmo come se tutto gli venisse così semplice, ma così semplice che… niente, io nemmeno tra duecentotrentasei anni raggiungerei quel livello.
Ad un certo punto, durante una breve pausa, mi chiede che strumento suono.
Di impatto, rispondo “niente!”: come fai a dire che suoni qualcosa davanti a uno che ha appena vinto il Lugano International Music Competition?
Con che cuore ti poni al suo livello?
Torno a casa, do’ un’occhiata al mio pianoforte e poi ci ripenso.
Suono anch’io, Tarozzi: suono con le parole, ed ecco qui.



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