Quando salvai le mie pinne e venne a galla il Giancarlo

Vi racconto la vera storia di come non sono diventato un eroe. Era un’estate così piena che le galline facevano le uova già sode. Io mi davo un sacco di arie. Avevo infatti le pinne “Cressi”: erano di plasticone duro e nero, si calzavano ai piedi che, sbattuti in acqua, facevano il “nuoto pinnato”. Di tutta la marmaglia dell’Oratorio e dei paesi che ogni mattina veniva deportata al Murialdo per fare bagni da zelanti assistenti e da qualche prete, io ero il solo che aveva le pinne. C’era, di fronte alla statua della Madonnina del Pignattari, il pontile di legno. Quando gli assistenti fischiavano con il fischietto e il prete faceva gorgheggi, dal pontile di legno era tutto un tuffo da massacro, uno sull’altro, per raggiungere a nuoto il posto, nell’acqua, dove erano piovute le caramelle lanciate dagli assistenti. Il lago brulicava di indiavolati che sbattevano gambe e braccia e qualcos’altro per arrivare primi. Io sbattevo come un matto i piedi pinnati sull’acqua. Arrivavo davanti a tutti e così mettevo pugni di caramelle nelle mutande da bagno.
Io e il mio amico Giancarlo un bel giorno stavamo sdraiati, a pancia in giù, sul pontile di legno. Con la coda dell’occhio vedo che il Giancarlo sbavava. Che volete, era il mio grande amico. “Va beh, povero infelice – gli ho detto in uno slancio di santità – ti presto le mie pinne, ma guai a te…”. Lui fa un salto dalla gioia. Si mette seduto e io lo aiuto a calzare ai piedi le mie pinne. Lui ride ebete. Lo tiro in piedi e lo butto di sotto, dritto in acqua come un piombino. Così si gode le mie pinne!
Ora, dovete sapere che non è da tutti: bisogna aver fatto le prove, nuotato sulla terra e sui sassi per imparare i movimenti. Mi rimetto sdraiato sulle assi del pontile. Passa un po’ di tempo, ma non si registrano emersioni. “Porco cane, le mie pinne! – urlo – Le ha il Giancarlo!”. “Dove?” chiedono gli assistenti. E io, indicando l’acqua, dico: “È di sotto, con le mie pinne!”. Guardo bene e intravedo, tra alghe e sardine, il mio amico che se ne sta sdraiato sul fondo. Non è un bel vedere: sbatacchia le pinne, di qua e di là, intreccia le gambe, si agita come avesse il ballo di san Vito, che, per inciso, era anche il nome nostro parroco. “Le mie pinne! Le mie pinne!” urlo disperato e mi tuffo come un fulmine. Giù, sotto a due metri di profondità, trovo un groviglio di arti e di pinne. Che fare? Afferro una pinna, la tengo con tutta la mia forza e, dando con le gambe un colpo di slancio dal fondo, riesco a fatica a risalire a rivedere il sole. Al traino, trascinato a rimorchio dalla mia pinna di salvataggio, sale anche una parte del mio amico. Emerge infatti dall’acqua, annaspa e ha gli occhi fuori dalle orbite. Assistenti, prete, eccetera, tutti sul pontile a far casino. Urlano: “È annegato! È annegato il Giancarlo!”. In venti almeno saltano in acqua, afferrano il mio amico strafatto e lo tirano in secca. Io salgo e mi siedo in disparte, ben defilato. Controllo che le pinne non abbiano riportato qualche graffio. Sento rumori e stridori disperati come se si fosse in un pollaio. Vedo, a un paio di metri di distanza, l’assistente più ciccio che salta sul petto del mio amico sdraiato a terra. Qualcuno lo bacia perfino. Lui sussulta e dalla bocca gli esce uno zampillo d’acqua. “È stato lui – dice un assistente – Lo ha tirato su dal fondo!” e, girandosi, mi indica con la mano. “Adesso mi menano” realizzo, e me la do a gambe con le mie pinne ben strette al petto.
A casa sono alle prese con un piatto gigantesco di spaghetti. “Com’è andata al bagno?” mi chiede la mamma. “Ordinaria amministrazione!” dico e, posata la forchetta, verifico, toccandole, che le mie pinne non si siano mosse. Sono sempre sulla sedia, stramaledetta estate! al sicuro sotto il mio culo, ben bagnato.
Vittorio Colombo