Lo chiamavamo “Bambina”

Rubrica17/10/20225min
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Lo chiamavamo "Bambina", ma lui non si offendeva - anzi - ci buttava giù certi larghi sorrisi sdentati e rinforzava il concetto sollevandosi quel buffo cappellino rosa a quadretti con cui sembrava esserci nato, sedici anni e qualcosa prima.
La madre, Antonia, lavorava in fabbrica, era addetta al confezionamento tessuti, non era più di quaranta chili. Il padre chi l'aveva mai visto? A stento l'aveva visto lei, poco prima che la lasciasse con un bambino in pancia e l'affitto da pagare.
Pare che qualcuno, mosso a compassione, le avesse trovato un posto di lavoro e le avesse fatto avere qualche vestitino minuscolo, un paio di coperte infeltrite, frutta sbucciata non appena arrivato il piccolo.
Che, per inciso, tutto era fuorché piccolo.
Antonia aveva sfornato un bebè di quattro chili e mezzo, mettendoci poche mezzore e un bel po' di imprecazioni - qualche bestemmia, tanti "mamma aiuto" quando sua madre, santa donna, era mancata dando alla luce lei. Tu guarda il destino.
Per fortuna, lei era sopravvissuta all'avvento di Bambina, anche se forse a ben vedere c'erano stati momenti in cui avrebbe sicuro preferito finirla lì, mamma aiuto o non mamma aiuto.
Dopo la scuola, ci trovavamo dove da alcune baracche ci si poteva buttare nel lago facendo a gara a chi arrivava più in là.
Bambina a parte, lui spesso faceva l'arbitro nelle nostre contese perché non solo non sapeva nuotare, ma l'acqua sembrava fargli un effetto strano.
Dicono che da piccolo, alle elementari, qualcuno l'avesse buttato nel Garda per insegnargli a stare a galla e che invece di risalire era colato giù a fondo - dove nemmeno i pesci scendono a riposare - e ci erano voluti tre uomini per tirarlo fuori.
Quel giorno ci si era trovati al solito posto, chi col costume e chi con le sole braghe dell'officina, ma Bambina non era arrivato.
"Che fine ha fatto quello grosso, un po' scemo?" - qualcuno aveva chiesto tra un tiro di sigaretta e l'altro.
Non so perché, non chiedetemelo proprio, ma gli ero saltato alla gola senza nemmeno vedere chi era.
"Scemo sarai te." - l'avevo spinto con forza contro la baracca, alcune spine di legno gli avevano falciato la camicia.
"Oh, ma che ti prende? Sei fuori? Stai calmo, coglione..."
"Coglione sei te, mica Bambina. Chiedi scusa, somaro."
Un'ombra era arrivata alle mie spalle.
La grossa mano di Bambina mi aveva staccato dal piccoletto, che aveva ancora la sigaretta accesa in mano.
"Lascialo andare. Vai a tuffarti, non dar retta a quel somaro."
Avevo sorriso a quello che da quel giorno sarebbe diventato il mio migliore amico: avremmo attraversato praticamente una vita insieme supportandoci l'uno con l'altro e passando attraverso un discreto numero di gioie e dolori, perciò abbiate pazienza - sono solo un povero vecchio - abbiate pazienza se proprio adesso, leggendo il suo necrologio qui accanto alla chiesa, non riesco a trattenere le lacrime.
Lui mi avrebbe strattonato forte e mi avrebbe detto, con quella voce grave, "Ma piantela, asén! No sta a pianzer proprio adesso, che non posso venir lì a difenderti pù."
E avrebbe ragione. Ma che volete, quello forte era lui. Poi state a guardare i cappellini rosa,va'.

Roberta Nina Bianchin – autrice, sul web www.robertaninabianchin.it

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