Il “Natrolina dòne” era il nonno di Mastro Lindo?

“Natrolina dòne”: l’annuncio urlato sconvolgeva piazza delle Erbe quando, tra banchi e banchetti, verdure e “pesàte”, massaie e contadini, appariva il carretto con sopra il bottiglione. L’urlatore era basso di statura ma largo di circonferenza: appariva come un salsicciotto pressato nel cappottone stazzonato reduce da mille battaglie. Spingeva a mano il carretto e ansimava per la fatica ma il suo urlo di battaglia era tanto potente e stridulo da far rizzare i capelli alle persone. Ben pochi, o forse nessuno, conoscevano il suo vero nome perché, per i rivani, era il “Natrolina dòne”, e tanto bastava.
Erano gli anni del Dopoguerra e i primi Cinquanta e il “Natrolina dòne” aveva avviato quel suo particolare traffico contento delle attenzioni delle “sue” massaie. Poco o nulla gli importava che quel suo ruolo di dispensatore del liquido del pulito andasse a stridere con l’aspetto dimesso. A quanti lo criticavano replicava: “Il vestito non fa il monaco, ma la natrolina fa miracoli!”. Aveva il suo laboratorio al piano terra di una casa contadina dalle parti della chiesa di Sant’Anna dove, nei primi anni Cinquanta, sarebbero sorte le prime case Fanfani, nucleo abitativo del futuro Rione Degasperi. In quel “vòlt”, una tana umida, l’alchimista dei poveri preparava la sua pozione magica. Va detto che la natrolina della quale si parla altro non era che il prodotto ben noto come “candeggina”.
L’omino la creava diluendo ipoclorito di sodio nell’acqua. Issava la damigiana piena sul carretto e, afferrate le stanghe, spingeva quel suo mezzo per la stradina del Grez, allora chiusa tra due muri a secco. Doveva fare proprio un bel tratto di strada per arrivare in piazza delle Erbe che, allora, con le bancarelle del mervato, era il cuore della città. L’apparizione era annunciata dall’ urlo sgangherato: “Natrolina dòne!”. Ma, lo sapevano tutti, quell’esordio era solo l’inizio. Poi i messaggi urlati erano del tipo: “Dòne, è arivà el Natrolina. Netè la cà e ve specieré nei pavimenti” (Pulite la casa e vi specchierete nei pavimenti). Le massaie si facevano intorno. Tendevano le bottiglie vuote cavate fuori dai borsoni della spesa. L’omino, servendosi di una cannuccia di gomma dura, aspirava il liquido dal bottiglione, strabuzzava gli occhi e, levata di colpo la canna dalla bocca, la inseriva nel collo delle bottiglie per il travaso. Non tutto il liquido finiva nelle bottiglie, così sputava per risciacquarsi la bocca, senza riguardo per le clienti che protestavano con espressioni da scaricatrici di porto. C’era poi quella che non mancava di dirgli: “Varda che no l’è vin! Te vei la lengua bianca” (“Guarda che non è vino! Ti diventa bianca la lingua”).
Quel mondo, ormai lontano, lo puoi trovare solo nei ricordi degli anziani. Negli anni Sessanta con gli Americani le scarpe sono diventate di gomma e le confezioni di plastica dei prodotti per la pulizia hanno riempito gli scaffali dei supermercati. Da mezzo secolo ci accompagna il tormentone di Mastro Lindo, figura da cartone animato di un bianco innaturale che, ben pelato, mostra i muscoli. Lo hanno inventato proprio gli Americani che lo hanno lanciato come un Superman invincibile. Verrebbe da pensare che il “Natrolina dòne” sia stato, in fondo, una sorta di nonno del Mastro Lindo. Ma, a ben guardare, non c’è gara: si passa dal personaggio rivano di una volta, povero ma vero e umano, alla finzione del Superuomo del pulito dei nostri tempi che dopo l’uso va a finire, da vuoto involucro di plastica qual è, nel bidone della raccolta differenziata.
Vittorio Colombo










