Come lo zucchero nel caffè
E’ successo l’inevitabile. O, meglio, il prevedibile. Tra casa, figli, marito, osteria, libri, giornali, esami e salute ballerina ho dato i numeri. Mi sono ritrovata letteralmente sbroccata, partita, lanciata e proiettata verso il pianeta del meltdown. Ho, per farla breve, pianto anche le lacrime dei miei avi. E, peraltro, l’ho fatto gridando una delle cose più terribili che avrei mai potuto gridare: "Non ce la farò mai a uscire di qui!" Dopo un breve momento di panico, intenso eh, ve lo assicuro, mio marito (detto Il Vecchio, ma anche Il Favorito e il Prescelto) sfidando il mio autismo mi ha abbracciato forte e lasciato sgorgare due litri di lacrime sulla sua spalla. (Avete mai pensato a quanto siano salate le lacrime? Eppure si dice che, quando si piange, si piangano lacrime amare. Che stranezza.) Dopo lo show, comunque, in silenzio il Favorito mi ha portato un caffè. Dolce, come piace a me. Due bustine di zucchero, che nella vita c’è fin troppa amarezza per berla deliberatamente. Mentre girava il cucchiaino per sciogliere i granelli (lo fa sempre, anche al bar) e mi guardava con la coda dell’occhio sentivo su di me uno sguardo preoccupato, carico di dolore e - per me ovvio, ma per i più un po’ meno - di amore. Ed è stato in quel momento che ho realizzato che io da qui non voglio per niente uscire. Voglio, semmai, smettere di far entrare la qualunque nella mia vita, prendermi il mio tempo, rispettare il mio ritmo che - neurodivergenza o meno - è comunque un lento walzer a tre quarti, un po’ vecchio e démodé, confortevole come le domeniche a casa dei nonni, tu, la copertina e il divano. E il caffè, naturalmente con tanto zucchero.