“Filippo”, il bastone scaldasederi del grande professor Maino
Chiamatemi Filippo. Il vero pezzo di legno. E non c’è Pinocchio che tenga. Dici “Filippo” e senti un colpo secco al fondoschiena. Un po’ doloroso, ma quel tipo di dolore che ti scalda, con il culo, il cuore. Filippo era un bastone, Ma non bisogna stare alle apparenze, perché il Filippo di cui si parla aveva un’anima. Era il braccio, armato e amato, del professor Maino. Mitico insegnante di ginnastica di generazioni di “filippati”. Mentore d’altri tempi, alle Medie e al Liceo.
Era, il bastone Filippo, il più noto degli insegnanti. E anche il più duro. In fondo chi lo brandiva, così si pensava, lo aveva avuto in dono dal cielo, Come il martello di Thor. Il tempio delle Filippiadi era la palestra delle medie Nino Pernici. La palestra crollò con il terremoto del ’76, ma il Filippo non crollò mai. Passò a scaldar culi pigri nelle altre palestre rivane.
Di che razza fosse, se d’olivo o di noce, non so. Che vi frega dei natali di una simile sagoma di legno? Vi faceva veder le stelle, no? E allora…
Il professor Enzo Maino era della stessa specie. Un legno-filippo cresciuto. Diciamo che era un signor tronco. Forse, per via di un prodigio ginnico, era addirittura il papà del Filippo. Papà Gambalunga. Era alto due metri il professor Maino, o giù di lì. Dritto come un cipresso, e i muscoli erano veri nodi. E, che diavolo, ti faceva restare a bocca aperta, e anche le mascelle dovevano fare i piegamenti. Per via che era sempre in movimento, come quel tipo della Duracell. Un vero uragano, ve lo assicuro.
Il professor Maino viveva in simbiosi con il suo pezzo di legno. Mai che lo lasciasse solo, che così noi filippati gli avremmo dato fuoco, ma con simpatia. Se lo portava, scusate la caduta di stile, anche al cesso. Tanto gli era affezionato, a quel maledetto pezzo di legno.
Noi giù a far piegamenti. Sentivi il passo di papà Gambalunga e ti si abbassavano le orecchie. Novanta gradi, ma arrugginiti. E “pamm” da dietro, il Filippo era il castigo. Porca che male, alle parti dove non batte il sole. Buono l’amico Filippo, il dannato scaldaculi.
Dove il Filippo diventava leggenda era al quadro svedese, strumento di tortura venuto dal nord, e soprattutto alle corde e alle pertiche. Lì faceva propio miracoli. Chi poteva, andava su come un gatto in amore. Batteva la testa sul soffitto, tanto andava su come un razzo. Ma, e qui la storia si fa commovente, c’era la schiera di cicciotelli. Amici di solito secchioni. Sempre sui libri a metter su sapienza e peso, brancavano la fune inquieta. O quel porcodiavolo di palo che amava farsi chiamare pertica.Sapevano già, i disgraziati, la loro sorte. Tiravano come dannati dal fuoco sacro. E, a momenti, gli scoppiava anche una qualche vena nella testa. Alzavano le gambe, rannicchiati, tipo Koala, quel fenomeno che stava sul libro scienze. Nessun segno di vita. Non si schiodavano di un decimillimetro. E allora dai… il caritatevole Filippo fischiava l’aria. E colpiva il didietro. Che era la parte più ingombrante. Bella forza, per il buon Filippo, arrostire il bersaglio grosso. Fatto sta e fatto non sta, che l’amico saliva. Anzi ascendeva come una littorina, E tutti gli amici a fare “oh”, Tanto era miracoloso quel buon Filippo.
Ce ne sarebbero di storie…
Ma un’idea ve la sarete pur fatta. Ah, non pensate che… erano altri tempi. Al Filippo volevamo bene, come a quel cipresso gambalunga del professor Maino, sempre nei nostri cuori. Nessuno si è mai lamentato. O che abbia mai detto “Quel Filippo che pezzo di merda”. E dire che nessuno, ma proprio nessuno, si è salvato da quella peste. E anch’io, che Dio l’abbia in gloria, ho avuto la mia buona dose. Proprio belli i ricordi, Buoni quelli, ti salgono dal didietro come su una pertica. Ma rapidi fino al cuore. E, credetemi, sono proprio contento. Di essere stato amico di quella sagoma di Filippo.
Vittorio Colombo