Mola, Paso Doble, Johnny Walker: per tutti era il camminatore felice
Tu sei i nomi che ti danno. E il protagonista di questa storia era conosciuto con un ventaglio di nomi. Belli ed evocativi. Come “il Mola” (molla).
La sua camminata era straordinaria. Passi lunghi, anzi lunghissimi, e ben distesi. Gamba dietro al polo sud e quella avanti, tacco a terra e punta al cielo, al polo nord. Passo non solo elastico, che è riduttivo. Passo molleggiato. Una vera molla, su e giù. Ginocchia e gambe disarticolate a caricarsi in basso per poi esplodere in alto. Compressione, estensione, compressione. Sacrosanto chiamarlo “Il Mola” (l’uomo molla). Tiramolla” per i bambini, come il personaggio di caucciù dei fumetti. In certe zone, a Torbole per esempio, era noto anche come ”Paso Doble”, altrove come “El Passo”. E avanti con i nomi: “el Peom”, “el Gambalonga”, “el Generale” (per la giacca napoleonica), “el Zic Zac Molom”, “el Vasaloppet”, “el Pie Veloce”, “el Metro”, “el Passolungo”. Suggestivo e assai diffuso il nome di “Johnny Walker” per via del fatto che richiamava il tizio che cammina sulle etichette del famoso whisky scozzese.
“Il Mola”, il camminatore molleggiato e felice. Macinava chilometri, Percorreva le strade della Busa e del Basso Trentino. Lo incontravi a tutte le ore del giorno e della notte. Ed era sempre felice. Molleggio di gambe, braccia penzoloni ad altalena, barba incolta, capelli sconosciuti al pettine e, sul volto, una beatitudine che neanche un Santo in crisi mistica. Era il sorriso in cammino Un candido figlio dei fiori che non pensa al domani, un filosofo peripatetico baciato dal segreto della perfetta letizia.
Viveva un po’ di elemosina, molto grazie alla solidarietà altrui. Da botteghe, trattorie e ristoranti, quando si affacciava a porte o vetrine, gli arriva spesso qualcosa da mangiare. A chi incontrava chiedeva “Ghèt per caso zento lire?”. Come facevano, del resto, la Ciarina col Sotero, o la Marina.
El Mola non era, sia chiaro, astemio. Parte del segreto della sua felicità stava nel conforto di un buon bicchiere di vino. Di carattere socievole si fermava a parlare con i manichini di cartone di cuochi o camerieri. Era molto amico poi del cuoco manichino che si trovava all’esterno del ristorante Posta a Riva. Al bar delle Acli giocava a briscola. S’impegnava se la posta in gioco era un bicchiere di rosso, rigorosamente tappo corona.
Lo ricordano in molti. Tra questi Riccardo Aldrighetti: “All’epoca – dice – lavoravo alla Cantina Marchetti, lui veniva con il suo bel cartoccio. Andava prima dalle ragazze disabili di villa San Pietro che gli mettevano in mano un panino. Veniva così al Marchetti e chiedeva un “bicér de vin”. Portava spesso una camicia a scacchi con maniche arrotolate: Io gli chiedevo che ora fosse e lui con gesto di tirarsi su la manica mi diceva sempre le “sète e meza”, qualsiasi fosse l’ora”.
“Stavo suonando in un locale della zona – ricorda Albino Bombardelli – Lui si è avvicinato a un tavolo di tedeschi ed ha tracannato, uno dopo l’altro, tutti i bicchieri di vino. Con loro imbalsamati dallo stupore. Ho riso tutta la sera”.
Con tutti i soprannomi che hanno accompagnato la sua storia è stato leggenda. Ma è giusto e umano ricordarlo qui con il suo vero nome. Si chiamava Massimo Degasperi. Morì, ironia del destino, investito da un’auto. E dire che, nei pressi di Vezzano, stava solo camminando ai lati della strada.
Se ne andò così con passo molleggiato dalle nuvole, a percorrere le strade di un misterioso posto dove tutti sono uguali. Perché c’è l’obbligo di camminare assieme, a passi lunghi e molleggiati come tanti “Mola”, finalmente felici.
Vittorio Colombo