Il piccolo delinquente disse “cretina” alla maestra e scappò sul Brione
“L’Asilo, prima caserma della vita, non mi ha avuto. Fiero obiettore, disprezzavo certi miei amici intruppati. I miei primi anni li ho vissuti allo stato brado. Saltavo fossi, rubavo ciliegie, battevo il Brione duellando con il “bis bastonèr”, che non è velenoso, ma si alza e, duro come un legno, mena certe botte.
Con l’animo dello spirito libero affronto la resa dei conti. Sei anni, l’età della perdita dell’innocenza. Primo giorno di scuola. Un dramma. La mamma mi fa le raccomandazioni e mi mette una molletta a tener giù i capelli. No, non posso portare la rana in tasca. Poi però la porterò, mica posso lasciarla sola.
Questo è il banco. Ma va? Devi star seduto.
No, non puoi andartene in giro e, se ti scappa, devi alzare la mano e con indice e medio sollevati; non si dice “devo pisciare” ma “scusi, signora maestra, mi scappa”. Che mondo è mai questo?
Non ricordo la causa scatenante. Devo essere stato ben umiliato e calpestato. C’è un limite a tutto. Così mi sono ribellato. Come? Mi sono alzato in piedi e, con bella voce, ho detto alla maestra: “Stupida, cretina”. Prima che la poveretta, sbiancata e prossima a un colpo, potesse riaversi, ho attraversato a passi decisi la classe. Dato un calcio al banco, ho visto i miei compagni con la cera di chi s’è giocato l’Angelo custode. Mica potevo andare a casa, siamo matti? Così sono salito sul monte Brione. Fuggiasco, destino segnato: piccolo delinquente da riformatorio e poi… galera. Giù in basso il fattaccio aveva sconvolto Sant’Alessandro. La maestra aveva mandato un bidello a casa mia. E, incapace di articolar parola, aveva fatto un disegno. Si vedeva una sorta di scolaro, io, e una tipa in cattedra, lei, la maestra. Sopra la mia testa le nuvolette, quelle dei fumetti di Tiramolla, nelle quali c’erano le parole “stupida, cretina”. Come lo so? La mamma poi, quando doveva mettermi in riga, me lo metteva sotto gli occhi. E io abbassavo le orecchie.
Dunque sono sul Brione, vicino alla “casòta dei dó pini”, nascosto nell’anfratto che usavo quando giocavamo agli indiani. Vengono su a cercarmi. Parenti, conoscenti e forse cacciatori di taglie. Li sento gridare il mio nome. Io mi tiro sulla testa delle frasche. “Vieni fuori, non ti facciamo niente”. Sì, figurarsi, delinquente perduto sì, ma non ritardato. Ero un vero bandito. Ricercato come il Tex Willer dei primi albi. Sarei sempre vissuto alla macchia, assalendo i contadini saliti per la raccolta delle olive, cibandomi di bacche, móre, “nèspoi” e, se necessario, di scarafaggi. Volpi e donnole meglio lasciarle stare. Dopo qualche ora, silenzio. Le guardie della scuola avevano abbandonato la spietata caccia. Mi spiace per i miei, finiranno bollati da infamia riflessa, ma mica posso finire in galera… dove non ti fanno vedere Rin-Tin-Tin alla Tv dei Ragazzi. La luce sfuma e cala la sera. Nel silenzio, così rintanato, sento rumori, vedo ombre.
È ormai buio, quando suono alla porta di casa. Apre la mamma. Come nulla fosse chiedo “Che c’è per cena?”.
Il giorno dopo, tirato per un orecchio, occhi bassi, molletta maledetta nei capelli, sono lì davanti alla maestra. Chiedo scusa con voce che è soffio di sofferenza: “Non lo farò più”.
Lei mi fulmina, poi: “In riga e filare dritto, non vorrai fare la fine di Franti”. Il povero Franti è il piccolo delinquente del libro “Cuore”. Che potevo fare? Ho mollato qualche lacrimuccia strategica di pentimento. I miei compagni se la godevano. Dannazione! Ma da quel giorno sono stato leggenda, riverito anche dai grandi di Quinta. Non si sa mai che cosa ti può fare un piccolo delinquente!”.
Vittorio Colombo