di Nina Roberta Bianchin
"Uscirono poco alla volta, prima qualche coppia tenendosi per mano, poi un signore col cappello di feltro in testa... un altro con la bicicletta da passeggio, il cestino scrostato con dentro un pacchetto di uova da portare chissà dove... una signora col nipotino, un paio di cani in rincorsa, un gruppetto di ragazzini vocianti e felici – che tanto la scuola non c'era fino a lunedì.
I colori non erano mai stati più vivaci di così. Il cielo era un cielo azzurro, con qualche nuvola dalle forme strane ma amichevoli, il sole era caldo e giallo come nei disegni dei bambini, gli alberi verdi e pieni di uccelli che movimentavano le foglie solleticate dall'aria di primavera.
Passai dal panettiere, dove comprai due pezzi di focaccia all'aglio e un pane pugliese e lui mi regalò un paio di Boeri, mi accesi una sigaretta e mi avvicinai alla fontana della piazza principale – piena di acqua zampillante da cui si abbeveravano gli stessi cani incrociati poco prima e una mezza dozzina di colombi. Mi sembrarono belli persino i colombi, notoriamente così poco eleganti -con le loro proporzioni raffazzonate. Alzai lo sguardo ai tetti e alle finestre. Non c'era nessuno, erano tutti fuori. La gente non aveva più paura della vita, ed io la stavo respirando a pieni polmoni."
"Nonno, e invece prima – durante la quarantena – cos'altro ti ricordi di quel momento?"
"Mi ricordo che tua nonna ed io, in quei giorni di isolamento nella nostra casa, passammo quasi tre settimane a fare l'amore, bere vino bianco e progettare la nostra vita."
"Ma non avevate paura?"
"Oh, tanta. Tanta paura, avevamo. Solo gli stupidi non hanno paura, perché non hanno niente da perdere – visto che non capiscono il valore di ciò che hanno. E noi eravamo tutto fuorché stupidi. Però avevamo anche voglia di vivere, mica di perdere tutte quelle cose che sarebbero tornate – perché sarebbero tornate, sai? Lo sapevamo tutti. Per questo stavamo tranquilli, soprattutto tua nonna ed io. Ogni tanto, ogni tre o quattro giorni, scendevo a portare l'immondizia e mi guardavo intorno."
"E cosa vedevi?"
"Vedevo la città deserta, i palazzi chiusi, le strade silenziose. Solo gli alberi, con gli uccellini e gli insetti in piena attività per il risveglio dall'inverno, continuavano come se niente fosse. Gli esseri umani erano in stand-by."
"E' stata una cosa utile... Una fortuna, che l'abbiate capito tutti."
"Certo... ma non è stato semplice farlo accettare. La gente ha le sue abitudini, la sua routine. Non è stato facile per nessuno."
"E quei bambini, quelli lì di cui mi hai detto prima, poi sono tornati a scuola?"
"Ma certo. Hanno continuato le loro vite come tutti, e ora molti di loro lavorano come dottori, avvocati e panettieri."
"Da come parli sembra che anche se avete affrontato una cosa gravissima, non sia poi successo molto – in realtà."
"Questo perché l'essere umano ha una grande risorsa: sa ricominciare, sa ricostruirsi e reinventarsi giorno per giorno."
"Nonno, tu lo sapevi che sarebbe andato tutto bene, dai."
"Sì, lo sapevo. C'era tuo padre nella pancia della nonna: quello era il mio biglietto per il treno della felicità e..."
"Amore, svegliati... amore, sta suonando la sveglia, sai?"
"Di già?! Ma che ore sono?"
Lei sorride, gli occhi ancora mezzi chiusi dal sonno.
"Le sette e mezza. Devi anche portare fuori l'immondizia."
"Va bene, vado, vado..."
"Ricordati i guanti e la mascherina..."
"Sì, certo... la mascherina e i guanti, tranquilla..."
"Mi spiace, che tocchi sempre a te... Io col bambino in pancia non sono tranquilla ad uscire... Preferisco aspettare che finisca la quarantena... se mai finirà, a questo punto... sai che sono ansiosa, ma... Che fai? Io ho paura e tu ridi? Cos'hai da ridere?"
La stringo forte a me, forte come per non lasciarla andare mai. E, sì, sorrido.
Perché stanotte mio nipote mi ha detto che andrà tutto bene. E ai bambini si deve credere, credere sempre.