Il sindaco Cesare e la “sindaca” Mariota
Ventidue anni, un soffio o un’eternità?
Il 10 gennaio del 2003 all’ospedale di Verona moriva Cesare Malossini, sindaco di Riva, stroncato da un ictus: il dramma tre giorni prima in Consiglio comunale in occasione della discussione sul bilancio. “Vorrei tanto che Riva fosse una città pacificata. Vorrei che chi si trova in difficoltà potesse risolvere i suoi problemi. Vorrei…”. Aveva fatto in tempo a dire questo ed era crollato davanti ai costernati consiglieri proprio mentre stava dando spessore al suo sogno di una Riva civile e umana. “Vorrei tanto che Riva…” è diventato così il suo testamento spirituale, che è giusto tenere vivo, pur a tanti anni di distanza.
Malossini si definiva non un “primo cittadino”, ma un cittadino come gli altri. Solo con qualche responsabilità in più. Non si era mai sentito un potente. Non alzava mai la voce. Era convinto che il dialogo, il rispetto, l’opera di mediazione fossero gli strumenti autentici della politica. Alcuni passaggi di quella dimenticata relazione al bilancio condannavano “il linguaggio grossolano ed offensivo non poche volte utilizzato in aula, quindi gli schiamazzi a microfoni aperti o spenti non degni di un civico consesso, la mancanza di rispetto per la dignità delle persone”. Uomo tra gli uomini, gli piaceva stare tra la gente, soprattutto quella semplice. Amava parlare delle cose di ogni giorno. Conosceva e salutava tutti. Girava per le strade di Riva dando la mano e regalando un sorriso. Il contatto fisico era da cittadino alla pari, anche con i più emarginati. Si fermava di buon grado a scambiare due chiacchiere, a bere un caffè. Così il tragitto da via Maffei al Municipio in piazza era scandito dai suoi passi lenti e di continuo interrotti da nuovi incontri, quasi volesse stare il più possibile tra la gente, prima di affrontare il palazzo istituzionale. Che di certo sentiva impegnativo, a volte fonte di sconforto.
“È di carattere troppo buono per sostenere lo scontro politico” dicevano quelli che gli volevano bene. Parlava di problemi, come la viabilità, ma si vedeva che gli interessava arrivare all’immancabile “come va in famiglia? Salutami il Tale” e diceva il nome del familiare, perché così si riallacciavano i legami sentimentali. Quando indossava la fascia tricolore, lo faceva con l’orgoglio di rappresentare quella Riva che era nel suo cuore.
“La Mariota è più importante del Sindaco” avevo scritto nel titolo di un articolo su “l’Adige” per ricordare il compleanno di un’anziana ospite della Casa di Riposo. Ne aveva passate tante la povera Mariota Boccagni nella sua vita di sacrifici e di dolori, ma era una vera “grósta” rivana indomita. Al Ricovero era stata data per morta decine di volte, ma riapriva sempre gli occhi e diceva: «’Ndo sónte?». Quando la portavano in carrozzella in giro per Riva, tutti la salutavano e le davano una sigaretta. Il Cesare, visto il giornale: “È proprio vero. È più importante del Sindaco. Scrivete che ve l’ho detto io. Faccio i più affettuosi complimenti alla sindaca Mariota”. Così era il Cesare, che viveva per la sua famiglia, la moglie e i figli e per l’altra sua famiglia, la città e i Rivani, con un bel posto nel cuore anche per la sua Inter. Ventidue anni fa successe il dramma, avvenne nel momento istituzionale più importante, in Consiglio comunale in Municipio. Quel messaggio affidato all’ultimo respiro di un uomo buono va tenuto ben vivo, testamento prezioso per tutte le stagioni. “Vorrei tanto che Riva fosse una città pacificata”.
Vittorio Colombo
(Per cortesia, sui social niente commenti fuori luogo per rispetto alla memoria di Cesare)