Da piccola odiavo i saggi.
No, non quei vecchietti con la barba lunga e le mille soluzioni per la vita, ma quelli che in linea di massima si fanno a fine anno per dimostrare quanto si è imparato a scuola di pianoforte, di danza, di teatro…
Li detestavo proprio, come a suo tempo ho detestato le gare di ballo da sala, i contest di milonga, quelle cose che - per capirci - ti lasciano in gola quel gusto che è un po’ un misto tra l’olio piccante e la benzina, e che quando ha finito di farle e torni a casa tua diventa difficile impedirti di baciare il pavimento e rinchiuderti nell’armadio avvolto nella coperta più spessa che hai.
Oggi sono al saggio di pianoforte di mio figlio.
Che, peraltro, avendo una neurodiversità sarebbe pure esentato dal parteciparvene.
Ma è qui.
Teso come una corda di violino ad un saggio di pianoforte, mica male come immagine no?
E io pure sono qui, che mentre sento tutti questi ragazzini esibirsi in polacche e walzerini penso che i saggi alla fine non si devono poi così detestare.
Perché, come nella vita, fare qualcosa di unico e memorabile anche e soprattutto davanti a tanta gente che non conosci ha una certa scala di difficoltà che senza la capacità di riprendersi dopo ogni errore non potresti gestire.
E insomma, si inciampa, si cade e ci si rialza.
Sui tasti, sui gradini, per strada, nel mondo.
Ma ci si rialza e si torna a casa ogni volta.
Lui è qui, io sono qui.
Inciamperà, ma tornerà a casa - dove ci sarò sempre io, e non una coperta.