Il piccolo delinquente star del circo Tiramolla
Una volta, si parla degli anni Cinquanta-Sessanta, i ragazzini avevano il mito del circo. Nel corso dell’anno ne venivano diversi a Riva. Alzavano il tendone nello spiazzo, allora libero e dedicato ai Luna Park, di via Pernici oggi occupato dalle Scuole Elementari. Venivano il circo Orfei, il Palmiri Benevens ed altri. Noi ragazzini non ne perdevamo uno, estasiati dai clown, dagli animali e dalle gambe delle acrobate senza rete.
Era inevitabile che noi poi, gasati, giocassimo “al circo”. A nord della casa di Sant’Alessandro, di fronte al vecchio campo sportivo, c’era uno spiazzo adatto. Eravamo in cinque o sei e una domenica pomeriggio ci ritrovammo artisti del circo “Tiramolla”. Ciascuno portava abiti vecchi, camere d’aria e svuotava le cantine di oggetti che si potevano prendere al volo o in testa. Dopo il primo spettacolo si era sparsa la voce e la domenica pomeriggio cominciarono ad arrivare paesani di ogni sesso e di ogni età, alcuni intelligenti, altri un po’ meno. Avevamo tracciato un cerchio che era la pista e, tutt’attorno, c’erano mamme con le carrozzine e bambini ululanti, nonni con bastone e nipotini frignanti, qualche vedovo, molte vedove, amanti del vino che pensavano ci fosse il bar e tutti i ragazzini della Scuola Elementare. Eravamo delle celebrità. Poi, che credete? Mica erano spettacolini di second’ordine. Il clou, da tutti atteso, era questo: c’era una corda legata ad un ramo che finiva proprio sopra il cerchio circense. Io venivo legato ad una caviglia e penzolavo a testa in giù. Un paio di compagni facevano roteare vorticosamente la corda. Io svolazzavo in circolo con il sangue nella testa, urlando come un matto e, con voli sempre più larghi, finivo sopra gli spettatori e davo botte in testa a caso. Tutti ridevano anche quando tiravo i capelli a qualche signora un po’ pelata. Poi c’era un materasso dove facevamo i salti mortali, anche all’indietro. Quindi, messi i panni della Prima Guerra, entravano i clown, che tanto più facevano scemenze tanto più ricevevano applausi. Avevamo anche gli animali: la gallina ballerina e il cane Furia, un bastardino cattivissimo con in testa uno strofinaccio che doveva essere la criniera del leoncino; correva eccitato da quel casino e azzannava le caviglie degli spettatori che lo festeggiavano a calci. Dopo un po’ cominciammo a guadagnare: qualcuno ci dava cinquanta lire, qualche buona donna un pezzo di torta.
Troppo bello, non poteva durare… Il prete andò dalla mia mamma, che era anche catechista, e le intimò di far cessare quella sarabanda, ispirata da un diavolo. Quindi mise sull’attenti donne timorate e intimorite. Il problema: la domenica pomeriggio, nelle scuole vecchie, il prete proiettavano le filmine “don Bosco” con santi, martiri e vergini, vere o presunte. Con l’occasione ci infilava anche un po’ di catechesi. Venne allora da noi il capo Scout, in divisa e con una picozza, e ci invitò a chiudere bottega: la domenica filmine “don Bosco”, altrimenti scomuniche anche a familiari e a trapassati. Sospendemmo, ahinoi, i fantastici spettacoli. Qualcuno pianse, qualche altro disse che avrebbe tagliato le vene non si sa bene a chi. Quando andai a confessarmi, ritenuto a torto il piccolo delinquente per avere detto “cretina” alla maestra, il prete dalla grata mi borbottò: “Riga dritto, veh! Cosa vuoi fare da grande?”. E io: “Il clown!”. Il confessore mi alitò: “Va avanti così che sei sulla buona strada!”.
Vittorio Colombo