C’era una volta a Riva il baretto dell’Oratorio

Vittorio Colombo10/07/20225min
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Nel mio pellegrinaggio alla ricerca dei bar perduti il baretto dell’Oratorio ha il sapore del ritorno all’infanzia. In pochi metri, attorno alla Chiesa dell’Inviolata, c’era il triangolo delle meraviglie. C’era il chioschetto dei fratelli Martini, punto di riferimento per generazioni di ragazzi per castagnaccio, gelati e leccornie varie; c’era il cinema Oratorio che la domenica era una bolgia dei fuoriusciti dalla “dottrina” e, onore alla memoria, c’era quel tal baretto. Discreto, perché lo spazio era quello che era in quella minuscola costruzione ad ovest del campo di basket, già teatro delle partite del “Giesse” del “Cianci” Amistadi e poi della Virtus del Giorgio Galas.
Imboccavi viale dei Tigli e trovavi quella sorta di bunker, con vetrata sul marciapiede. Scendevi le scalette interne. C’era a sud il banco e, nello spazio ristretto, facevano intimità un paio di tavolini e qualche sedia. Ma il piatto forte erano i tavoli esterni nell’aiuola a sud dell’Oratorio. Nelle sere d’estate era una gioia sedersi all’aperto. Le macchine in giro erano poche. Le luci dei lampioni e la chiesa dell’Inviolata erano magìa. E la pace della sera era omaggio della casa.
Negli anni Sessanta il bar era gestito da Filiberto Gottoli, guardia notturna, già dipendente della navigazione sul lago, proiezionista al Perini e al San Marco, il cinema all’aperto in viale Prati. Il Filiberto era anche operatore all’Oratorio. In quelle ore della domenica pomeriggio, e nelle serate dei cineforum o del sabato sera, lasciava il bar ai familiari e si metteva alla macchina da proiezione.
Doveva però fare i conti con le pellicole già disastrate per i tagli effettuati negli altri Oratori. Ma non è finita. Si dovevano fare altri tagli, quelli imposti dalla commissione che, il sabato, con l’arciprete don Bartoli, decideva per la proiezione rivana. Il massacro non era indolore. La domenica pomeriggio la proiezione del film si interrompeva almeno cinque o sei volte. Luci accese, urla e piedi battuti a terra, un finimondo. Intervenivano gli assistenti a suon di scapaccioni. Scendeva, a dar man forte, l’operatore Filiberto di stazza rilevante. Non menava le mani, prerogativa degli assistenti. In compenso urlava: “Boci! basta casìm! o ve le molo mi!”. Di solito funzionava. Finché l’operatore non riguadagnava la cabina, il film infatti non riprendeva.
Poi, dagli anni Ottanta, venne l’epopea del Rino Rizzi, che subentrò nella gestione del baretto. Simpatia contagiosa, disponibilità, ottimismo. Al suo fianco, presenza costante, la moglie, gentile e premurosa. Una coppia, quella dei Rizzi, che ha fatto un gran bel pezzo di storia. A buona ragione merita di essere ricordata con affetto per il clima familiare che ha reso più belle le stagioni di molti ragazzi e giovani rivani. Una trentina d’anni è durata la militanza al baretto dei Rizzi. Poi pensione e capitolo chiuso. Niente più aranciate dopo la partita serale di basket, niente più patatine da sgranocchiare al cinema, niente più serate da incanto seduti ai giardinetti. Anche perché oggi il traffico ha spento sogni e sognatori.
Il Rino si gode la pensione. Suona nella Banda cittadina, da quarant’anni è presidente della Fanfara alpina. Che dire? Quando incontri la coppia, sei contento. Tanti ricordi da condividere. Anche se il pensiero va a quel tal baretto che racchiude, come uno scrigno chiuso ormai per sempre, gli anni verdi della gioventù rivana.
Vittorio Colombo

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