Stalla “Montecitorio” di Bolognano: il “Nanao” era un Deputato

Redazione07/12/20255min
ANZIANI NELLA STALLA

Al pianoterra della Casa “dei Mistri” in via Trapione a Bolognano c’era una vecchia stalla. In paese la chiamavano “Montecitorio”, perché era una specie di Camera dei Deputati. Nelle lunghe sere invernali vi si riunivano alcuni vecchi del paese. Lo zoccolo duro della compagnia era formato da sette vegliardi che, cadesse il cielo, non mancavano mai. Il Nanao si era autoproclamato capo in virtù di un suo gran bastone nodoso. I suoi compagni di stalla erano il Barbarossa, il Bepìm delle Capre, il Nibale, il Doro e il Nato, tutti esemplari unici. Erano sordi come campane: uno parlava e gli altri, seduti su sgabelli posti in circolo nella stalla, portavano la mano destra all’orecchio buono, a mò di imbuto. Le serate senza ordine del giorno si trasformavano ben presto in baraonde indescrivibili. Litigavano come matti. La stalla non tratteneva le urla che, tra scatarrate e “sirache”, davano ai paesani l’impressione di essere nel bel mezzo di una rissa parlamentare. Era dunque, quella stalla, una succursale decentrata di Montecitorio, già allora famoso per scontri sia verbali che fisici. Il Nanao, grazie al bastone, pretendeva di essere, pur da solo, la maggioranza. Era un conservatore con simpatie mussoliniane, gli altri erano ondivaghi, nostalgici dei tempi degli Austroungarici, socialisti, anarchici, fino ad arrivare ad un’ala vegetariana per problemi di digestione. Proprio come a Roma tutti volevano aver ragione. Gli argomenti che non mancavano di scaldare gli animi erano le imprese da grande amatore di femmine del Duce e l’ignavia di quelli del Comune, “mangiatori di pane a tradimento”. Il Doro e il Nato erano l’opposizione dura. Spesso qualcuno tirava in ballo i tempi felici del “Cecco Beppe”. I confronti erano ad alto livello. Per fare un esempio, se uno diceva: “Duce, Duce, pàgheme la luce”, un altro replicava piccato: “Sì, ma sono tre giorni che non vado di corpo”. Membro fisso della compagnia, ma senza diritto di parola, era il bue. Aveva occhi ebeti ma, in compenso, alitava di buona lena riscaldando l’ambiente. Il Barbarossa era, di suo, incandescente. Era successo una sera che il Bepìm delle Capre aveva spalancato la porta sventolando un giornale. Con lui era entrata una ventata d’aria gelida. Minacciava pioggia con una promessa di neve. Il giornale era una rarità e preannunciava una seduta di gran cultura. Uno leggeva un pezzo di articolo “zappando” e, ad ogni pausa, si scatenava la discussione. Si contestava quello che scriveva “il foglio” che poi, tagliuzzato a strisce, finiva vicino al canale della latrina. Quando la discussione calava di vigore, spuntavano, da sotto il fieno, bottiglione e bicchieri per la santa tregua e avvinazzata. Passava così il tempo. Gli occhi faticavano a restare aperti. Fuori dalla porta sostavano, battendo i piedi per combattere il freddo, un paio di nuore e un paio di figlie dei vegliardi. Le samaritane avevano il compito di riportarli a casa. Il buio, le strade piene di buche, talvolta, come quella sera, il brutto tempo, erano pericoli da non sottovalutare. Le buone donne, mano a mano che si verificavano le uscite, catturavano l’anziano di propria competenza; gli serravano ben bene il mantello sul davanti e gli calcavano il cappellaccio sugli occhi. Le coppie, una ad una, si avviavano così, a passi lenti, verso le rispettive case. Il Nanao era di scorza dura: non voleva tra i piedi samaritane di sorta. Rimasto da solo a Montecitorio, dava un po’ di fieno al bue, spegneva la lampada ad olio e, chiusasi alle spalle la porta, entrava nella notte appoggiandosi al grosso bastone. La sera del giornale del Bepìm delle Capre si fermò un istante e annusò l’aria umida: tra qualche ora, quella notte, la neve sarebbe scesa dallo Stivo. Era soddisfatto del suo lavoro “parlamentare”: non aveva dovuto calare, neanche una volta, il bastone nodoso sulle zucche di quei vecchi petulanti.
Vittorio Colombo