Sant’Andrea, la fiera della tua infanzia felice
Da piccolo credevo che Sant’Andrea fosse il Santo del Torrone. Quindi era il mio santo preferito. La Fiera era la festa più bella dell’anno. Per la bolgia, i mille colori, la babele di dialetti, odori, sapori e personaggi felliniani. Con le sue leggende. I bambini, ingoiati dalla folla, rapiti per farne dei giostrai. Le zingare li tenevano nascosti sotto le gonne. Alla sera si lamentavano ventidue borseggi, tre scippi, tre allucinazioni da S. Andrea apparse a chi si era fatto tre fiaschi al canton Perini. Struggenti ricordi, e che bello! Le Medie-Liceo di viale Lutti ingoiate dalla fiera. Libera uscita alle 10 e via in compagnia a cazzeggiare.
Carrozzone dell’imbonitore del “pacco dell’operaio, pacco del lavoratore”. Lui sul trespolo con uno scatolone che «Ci vado a mettere una aradio, pelapatate, mutande ascellari». Ruotavano alti nell’aria, piatti e zuppiere. Sbatacchiavano ma, miracolo, non si rompevano. E giù nel pacco civetta. «Non ve lo do per dieci, né per cinque. Mi voglio rovinare, ve lo do per mille lire!». Pacchi a ruba. Ma poi a casa la paccottiglia andava in cantina. A far compagnia a quella dell’anno precedente.
Il ganzo della ruota della fortuna strillava regali. Vigorosi giri di ruota. Il numero della bicicletta esposta non usciva mai. Chissà perché. Guardavi il biglietto, peluche da quattro soldi o liquirizia.
E gli animali? Nei decenni del dopoguerra la Fiera era il raduno delle vacche, di maiali e di capre. Molte le sedi, dal campo dell’Oratorio, al prato di viale Pernici, al cortile dell’ex Agraria, al campo di basket di via Pilati. La vacca muggiva commossa quando i due scatarravano sulle mani che, strette e unte, sancivano la compravendita. Poi i trattori da Terminator mandarono in vacca le vacche.
All’incrocio di viale Martiri, davanti al bar Livio, pappagalli afoni e criceti nella ruota dannata. Tra i piedi i bimbi frignanti, in cielo la danza della colorata ascensione dei palloncini evasi dalle piccole mani.
Al canton Perini l’attrazione era la “Cisitalia” rossa, n.34, auto scoperta avveniristica. L’omino affidava agli altoparlanti il suo rosario: “Barbe dure, Barbe durissime, lama Bolzano, Cento lire il pacco”.
Trasportato ebete dal serpentone della folla, tamponato da carrozzine, infilato da ombrelli, era l’avventura. La scopa, i profumi, la cassetta di Orietta Berti, la crema per scarpe e quella pasticcera, l’infila aghi, lo spremi dita. Le donne dei paesi compravano trapunte, stoffe, trine e merletti. Il corredo per la figlia che andava sposa. Il cappotto con il pelo umano, l’impermeabile alla Bogart, i mutandoni contro “el mal dela préa”.
Poi la santa abbuffata. Torrone bianco o con strato di cioccolata, duro da martello o morbidoso, a stecche o a mattoni. D’obbligo il “paninàz” con pasta di maiale o con salsiccia e cetrioli. E, apoteosi, il tanto sognato piatto di trippe calde al Vaticano.
S. Andrea era, talvolta, il giorno benedetto dalla prima nevicata. La Rocchetta imbiancata dava spettacolo. E, quando calavano le ombre della sera, con le luci che andavano scemando ti invadeva una nostalgia indefinita per qualcosa di bello che andava a finire.
Era l’ora dello struggente ritorno al paese di nonni, mariti, mogli e figliolanza. Calati di buon mattino dai Campi, Ballino o Val di Gresta se ne tornavano carichi di borse, scatoloni, regali per il Natale dei bimbi, conigli d’angora e dolci ricordi.
Un’altra Sant’Andrea da archiviare, un anno in più sul groppone, un blocco di torrone in tasca, un pesce rosso in bustina e, per noi boci, la promessa per il giorno successivo del tema che, anno dopo anno, andava a cominciare così: «Cara maestra, ieri alla Fiera di S. Andrea…».
Vittorio Colombo.