Un anno prima che venisse ucciso nell’attentato di Serajevo, fatto che scatenò la Prima Guerra Mondiale, l'erede al trono d’Austria Arciduca Francesco Ferdinando subì una sorta di attentato in quel di Riva. E allora, se proprio volete sapere che successe in quel lontano 1913, eccovi la storia, fino ad oggi mai raccontata.
C’erano a Riva due bande di ragazzi in guerra tra loro. La banda del Marocco, con i “Marochèri”, e la banda del “Castèl” con i ragazzi di San Rocco, piazza Catena e inizio Gardesana Occidentale. Le bande erano formate da ragazzi di 10-12 anni. I due rioni erano rivali anche per sentimenti: filoitaliani i marochèri, “austrofili” gli altri.
Partì l’ennesima sfida. Una quindicina per parte. Luogo dello scontro: le pendici sopra la casa cantoniera e la prima galleria dopo la “Ponta”. Sassi come proiettili, frecce fatte con le stecche di ombrello, bastoni a mo’ di spadoni. Quelli del Castèl costruirono, invece, sul costone due o tre trinceroni con muretti fatti di sassi e rocce. Il tutto poggiava su lastre di latta ricavate da bidoni del petrolio alle quali erano collegate delle funi. All’assalto dei marochèri dalla sottostante strada del Ponale avrebbero tirato le funi. E una pioggia di sassi sarebbe caduta sugli assalitori.
Proprio in quei giorni in Val di Ledro, a ridosso del fronte con l’Italia, le truppe austriache tenevano imponenti manovre militari.
È domenica mattina, giorno della battaglia. I marochèri partono all’assalto, i nemici del Castel azionano la macchina da guerra. Tirano le funi e una pioggia di massi piomba sulla strada.
Ma succede proprio mentre passa il corteo delle carrozze dell'Arciduca Imperiale. Urla concitate: “Allarme, allarme!”. Di certo un attentato di anarchici o irredentisti. Le carrozze arretrano di gran carriera. Gendarmi e soldati, armi spianate, occupano in un baleno la zona. Ecco gli attentatori. Arrendetevi! Quelli che alzano le mani a un palmo dalle canne dei fucili sono ragazzi, sporchi e spauriti. Tradotti a Riva vengono identificati in Caserma e “fatti cantare". L’emergenza rientra, ma il fatto è grave. Gli scapestrati vengono processati dal Giudice distrettuale. E condannati. La pena, passata la buriana, è decisamente bonaria: un giorno di reclusione nella guardina del Comando di Vigilanza Urbana.
Detenzione il primo sabato dopo il fattaccio, giorno scelto perché di vacanza dalla scuola. I trenta “ragazzacci”, così definiti dal buon Giudice, vengono stipati in un locale senza finestre. Dove succede il finimondo. Il sergente dei Vigili, un mezzo tedesco, si precipita dal Giudice. Dice tutto d’un fiato: “Signor Giudice, zum teufel, qui tutti diavoli. Spaccare sedie, panche, assi, pavimento, Inferno, inferno! Lasciarmi molare questi scatenati se nò spacare tutto”. Così, tre ore dopo, i ragazzacci tornarono in giro a far malanni. Il lunedì poi, a scuola, la tirata d’orecchie arrivò dai maestri di quarta e quinta elementare, Giuseppe Comai e Giuseppe Michelini.
Che storia ragazzi! Se è inedita da dove diavolo viene? Me la regalò, anno 1980 o giù di lì, il Fabio Bertagna, gran personaggio (motociclismo, ciclismo, pescatori, Benacense ecc.). Raccontò ogni particolare in prima persona perché, classe 1902, da ragazzo del Marocco, fu uno degli sciagurati protagonisti di quell’avventura. E io presi diligentemente nota. Per raccontarvela, che diamine!
Vittorio Colombo