Noi, sventurati calciatori in erba, presi a pallonate a Riva ed Arco
Da grande sarei finito in Nazionale. Il mio era il sogno di tutti i ragazzini che, come me, varcavano la soglia degli anni Sessanta. Siamo sinceri, come calciatore in erba non ero un fenomeno. Per niente. Quando driblavo mi scartavo da solo.
(Nella foto sono con Mario Malossini e una cosa tonda chiamata pallone).
Alle elementari ci facevamo il pallone con un pezzo di camera d’aria. Aveva una forma ovale ma i tiri erano ad effetto. Spesso scoppiava in aria, altre volte volteggiava come una farfalla impazzita. In piazza della chiesa con i libri si facevano le porte. Come pallone si usava un gomitolo di stracci o la giacca arrotolata di qualche infelice.
A dieci anni l’agonismo. Era il via alla carriera per la Nazionale. Al mio paese, S. Alessandro, la squadra dei grandi era la Fulgor. Campetto pieno di buche. Io e gli amici, tutti da Nazionale, eravamo promesse in erba e toppe che io tiravo in porta quando mancavo la palla. Il prete deteneva il pallone. In ginocchio a pregarlo, con giaculatorie. Ogni tanto lo mollava. I palloni erano di tre tipi: numero tre, leggerino, numero cinque un macigno. Si sperava nel quattro. Quelli con l’ago da infilare e pompare erano il lusso. A noi davano i palloni con la cucitura ad asola. Come melanzane spesso “sboggiavano”.
Nella Busa parte il Campionato giovanile CSI, Sponsor preti ed Oratorio. S.Alessandro, in un delirio di onnipotenza, iscrive la squadra. Cioè io e gli altri amici, tanti Rivera e Mazzola.
La domenica mattina raduno in piazza per la trasferta. In bici, uno sulla canna e uno a pedalare. Io sempre a pedalare. Appello dell’allenatore: sette su undici. I magnifici sette? Al tempo…
Con le squadre delle frazioni si perdeva ma lottando. S. Giorgio, Rione, e lo spietato Bolognano dove già prima del fischio d’inizio ti festeggiavano a calcioni negli stinchi. Noi limitavamo i danni con il catenaccio alla Nereo Rocco: tutti e sette in porta.
Ma era con le squadre delle “Capitali” che davamo il meglio. Ad Arco dopo dieci minuti eravamo sotto di dieci a zero. Il nostro coach ci ha detto “bravi” ed ha tirato l’asciugamano in campo. Era la resa. Io giocavo centravanti di sfinimento. Il tizio che mi marcava mi saliva sulle spalle e si faceva portare in giro. Così non ho mai dato del “tu” al pallone.
In sette al Benacense ci siamo persi di vista. Mezzo campo da vendere, il loro. Una volta il nostro campione, detto Pelè, liberò l’area con il calcione alla “viva il parroco”. Il pallone finì tra le “canete” della Miralago. Spedito a cercarlo nella palude, il nostro Pelè deviò e se ne andò a casa. Un’altra volta i rivani ci prestarono delle riserve. Infilarono ben sette gol. Ma nella nostra porta.
Mai una gioia. I chiodi delle scarpe bullonate uscivano dalle suole e mi entravano nei piedi. L’arbitro, per fischiare l’inizio, aspettava la pioggia. Fango, sudore e lacrime e poi il bello degli spogliatoi. I nostri carnefici si facevano la doccia. Noi, tipi di paese, non ci levavamo le mutande. Ma quando mai? Per poi magari sentirci chiedere dal Parroco “quante volte?”.
C’era poi il dramma del ritorno in patria. I paesani, seduti davanti al bar, scuotevano la testa. E l’allenatore andava a piangere dal prete. Che diceva: “Eh, la bala l’è tonda. Disem su ‘na corona, valà”.
Vittorio Colombo