L’eremita di Arco e la lotta col demonio
Cimitero del Grez a Riva, davanti ai loculi. Due amiche chiacchierano amabilmente.
D’improvviso una voce irata le apostrofa: “Alora, nó se pol polsàr gnanca chì!”. Le due sobbalzano terrorizzate. La voce d’oltretomba veniva da sopra le loro teste, dalla fila più in alto dei loculi. Riavutesi le due guardano in alto. Dall’ultimo loculo emerge una testa per niente rassicurante. È quella dell’eremita di Prabi che, in linea con le sue stramberie, era andato a dormire dove ci dovrebbe essere silenzio e pace eterna.
Questo non è che uno dei tanti aneddoti che si raccontano (altri ne racconteremo) su un personaggio di un paio di decine di anni fa assai noto in Busa anche per via del suo carattere spesso iracondo. Anarchico e insofferente, occhi spiritati, campanella al collo, barba luciferina, la sommità della testa pelata e, a far corona, una selva di capelli che, scuri e incolti, scendeva fino a metà schiena. Viveva nell’Eremo di San Paolo, sopra Arco nei pressi di Ceniga, e da buon eremita mal tollerava le visite. C’era qualche donna che batteva alla sua porta, magari per confessarsi o per avere conforto. L’eremita cacciava la poveretta a suon di “Madonne” non proprio in linea con i dettami della Chiesa. Spirito inquieto e tormentato, era condannato a camminare. Girava per ogni strada della Busa, passetti minuscoli, ma rapidissimi, strascicando i poveri piedi, spesso scalzi. L’aria di un profeta colto da delirium, la lunga criniera scossa da un turbine e gli occhi che sprigionavano fiamme. C’era chi lo prendeva in giro, ma anche chi gli allungava qualche spicciolo. Faceva sosta davanti a bar e negozi e c’era sempre un’anima buona che gli dava del cibo. Nel 1970 il giornalista Allegri del settimanale “Gente” riuscì ad intervistarlo. L’eremita si chiamava Gianfranco Messana, era nato a Raccalmuto sulle colline di Agrigento. Infanzia tragica, abbandonato dal padre e dalla madre ad appena 18 mesi, picchiato dalla zia, a vent’anni scappò a Milano e lavorò in una fabbrica di giocattoli. Colpito da vocazione, se ne andò sul monte Athos ad imparare dai monaci greci il duro mestiere dell’eremita. Il Demonio, però, lo aveva preso di mira e, nell’intervista, è riportata la sua epica lotta. “Il demonio mi tentava, giorno e notte – disse – Soprattutto di notte non mi lasciava mai riposare. Mi appariva con forme strane ed orribili. Certe volte assomigliava ad un enorme caprone, altre aveva l’aspetto di un uomo con le zampe di cavallo o di una donna nuda o di un grosso serpente. Mi appariva d’improvviso, mentre ero in preghiera o dormivo. Qualche volta mi picchiava forte o cercava di soffocarmi. Altre volte sentivo la capanna scossa come ci fosse il terremoto”. Anche a Prabi il Demonio era attivissimo. “La notte scorsa – raccontò – ho sentito gridare frasi oscene fuori dall’eremo. Era il Demonio che io combattevo con la penitenza. Per vincere le tentazioni ho indossato il cilicio, cintura di ferro acuminata, e mi sono flagellato”.
Nell’ultima parte della sua vita si trasferì in un appartamento a Mori e trovò un po’ di serenità. Morì, investito da un’auto pirata, nella notte del 26 gennaio del 1993. È sepolto a Mori. L’eremita è un personaggio che non ha mai fatto male a nessuno, ma che è entrato a far parte della nostra storia al pari di altri come la Marina, la Ciarina e il Mola, che con le loro figure libere e “straordinarie” hanno incrociato e reso più umane le nostre vite.
Vittorio Colombo