La soffitta, mondo perduto dei tuoi amori bambini

Vittorio Colombo11/05/20255min
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Nelle antiche case qualche soffitta è rimasta ma, per mancanza di amore, ha il sapore delle cose perdute. “Spazio buttato via” hanno sentenziato decenni fa le nuove generazioni. Sotto gli antichi travi, declassati a elemento decorativo, le soffitte sono diventate mansarde. Le nuove costruzioni hanno eliminato i tetti. Sono piatte sopra e piatte sotto. Oggi solo dire “soffitta” ha il sapore di vecchiume. Ma c’è stato un tempo che erano considerate con rispetto. Utili e indispensabili. Le “arele” dei bachi da seta sono Medioevo ma, in decenni successivi, le soffitte sono diventate la parte delle case dedicate all’accumulo, perché il retaggio contadino era che “non si butta via nulla”. Dava un senso di sicurezza sapere che in soffitta c’erano gli armadi dei nonni, con le cassapanche gonfie di oggetti e di vestiti, ancora buoni, da recuperare alla bisogna.
La soffitta era il tempio delle memorie di famiglia, perché quella vecchia specchiera, ad esempio, ti ricordava la nonna che si pettinava. Tu la guardavi riflessa e ti sembrava indicibilmente bella. I bambini di qualche bel decennio fa rivivevano in quella dimensione storie familiari, ritrovavano persone care scomparse negli oggetti che sembravano messi alla rinfusa, ma che avevano un ordine che tu ben conoscevi. La luce entrava di sbieco dalle piccole finestre che si rincorrevano sui quattro lati. I raggi di luce, con il passare delle ore, si affievolivano e promettevano l’arrivo delle ombre, le ancelle del buio. Seguivi il ciclo delle ore e il cuore ti batteva forte perché le ombre ingigantivano gli oggetti e gli armadi sembravano giganti che ogni notte si risvegliavano.
Se avevi la camera da letto al piano sotto la soffitta, ti sembrava di sentire passi ritmati e sordi. Avevi il timore che ci fosse il fantasma di qualche trisavolo che non aveva voluto lasciare il suo antro. Te lo avevano detto per farti paura. Distinguevi con certezza le galoppate pazze come colpi di mitraglia sulle assi delle pantegane inseguite dal gatto. La soffitta, quella degna di questo nome, era enorme. Occupava tutta la conformazione della casa. Aveva al centro il muraglione portante dal quale scendevano le travi, grosse, che sostenevano le file digradanti delle tegole rossastre. Sul tavolone stavano quadri anneriti, le cornici bucherellate dalle tarme. Chi erano quegli antenati dallo sguardo severo? Venivano da un passato senza luce, dei loro nomi si era persa la traccia, ma sentivi che andavano rispettati perché quella soffitta era casa loro. Vi erano ammassati mobili, sedie sgangherate, ma vive, perché vissute, il tuo seggiolone, quello dal quale, ti dicevano, eri caduto da lattante e, battendo la testa, eri rimasto un po’ ritardato. Ti guardavano con preoccupazione, perché ti perdevi nelle gesta di carta di Blek Macigno e di Capitan Miki, i personaggi dei giornalini che tenevi nel baule, sotto la finestrella dalla parte del tramonto. Ti sedevi sulle assi, sceglievi un paio di fumetti. Il silenzio avvolgeva tutto: il mondo era lì ed era solo tuo. La soffitta piano piano si riempiva d’ombre, ed era sogno nel sogno, quello della tua immaginazione e del tuo amore.
Gli armadi si stavano trasformando in giganti, le vecchie radio mandavano bagliori dai “valvoloni”, i topi provavano qualche passo di danza. Il gatto si strofinava e ti impediva di girare come si deve le pagine del fumetto. “Vai a caccia, pigrone, che la soffitta non è per topi e pantegane”. Te lo sei sempre chiesto quando gli “svuota-soffitte” hanno portato via tutto. E anche oggi, tanti anni dopo, te lo chiedi: “Come saranno oggi i sogni dei bambini senza la magia di una soffitta a riscaldarli?”.
Vittorio Colombo