Il “Cadena” e i 12 piatti di trippe a Sant’Andrea
Fare le trippe, come si deve, è un’arte. E ci sono o, per meglio dire, ci sono stati a Riva degli autentici sacrari, templi diventati famosi per le trippe fatte come dio comanda, E, allora, se proprio si voleva il meglio delle trippe, i luoghi delle delizie erano il Vaticano, il Canarino e il bar Cinque Maggio.
Le trippe erano il piatto del giorno della fiera di Sant’Andrea. Chissà perché. Ci vorrebbe una ricerca storica, ma fatto sta che il 30 novembre, giorno del Patrono, nelle case e nei ristoranti si andava felicemente di trippe.
Il Vaticano, in posizione strategica a fianco della chiesa dell’Assunta, era il ritrovo di valligiani e montanari, uomini temprati dal mercato delle vacche, e di donne di paese a caccia di lane e masserizie per il corredo della figlia da mandar sposa. Dopo intense ore mattutine di fiera si mettevano tutti in fila per un tavolo al Vaticano. E i tavoli si moltiplicavano fino ad arrivare nell’atrio del negozio del Pflegher, che stava proprio di fronte. Posavano masserizie a sacchi a terra e banchettavano felici. Era davvero impagabile gustare la bella fiera di una volta nobilitata dal sacrosanto piatto di trippe del patrono.
In questo quadro si inserisce a buon diritto un aneddoto che ha come protagonista il “Cadena”, un soprannome con il quale un omone grande e grosso come una montagna era conosciuto in tutta la Busa. Il Cadena era uno spirito libero, di quelli che non sopportano convenzioni e padroni di sorta. Aveva scelto di vivere in una baracca. La si vedeva passando sulla “rivana” in quella che allora era tutta campagna, spazio aperto e verde, grosso modo dove ora c’è il Palagarda e prima il Rigotti. La baracca era tipo far west, di tronchi ed assi, con il tetto di sghembo riparato dalle fronde di un albero gigantesco. Un’immagine da telefilm, tipo Bonanza. Il Cadena aveva una forza erculea, corroborata da qualche buona razione di vino ricostituente. Veniva chiamato quando c’erano lavori che richiedevano un bue da tiro o un trattore. Lui sollevava tronchi e pesi e, se occorreva, tirava direttamente l’aratro perché anche il bue aveva, talvolta, il diritto di riposare le corna. Viveva in simbiosi con i suoi animali, cani, pantegane e gatti. Una mattina un conoscente lo trovò sdraiato a letto nella sua baracca, sedato da una libagione maiuscola. “Stavolta moro – si lamentava ad occhi chiusi – Ho un gran peso sullo stomaco”. Il conoscente lo guarì togliendogli dalla pancia un gattone di sei chili abbondanti.
C’era dunque trippa per gatti.
Così il Cadena, e andiamo al tema in questione, nel giorno di una memorabile fiera di Sant’Andrea andò a festeggiare come si deve nel sacrario della trippa, al bar Cinque Maggio. Scelse una grande tavola, quella da compagnie numerose, proprio di fronte alla vetrata. Chiese che venissero serviti, in prossimità dei posti tutt’attorno alla tavolata, dodici piatti di trippe e altrettante caraffe di vino. Si sedette quindi a capotavola, con tutta la sua stazza. Con l’aria felice di un bambino cominciò a darci dentro con il piatto di trippe che aveva davanti. Il cameriere guardava la porta aspettando che entrassero gli altri convitati. Il Cadena, pulito il suo piatto, si alzò e andò a sedersi nel posto più vicino e si rimise all’opera. Ripetè il rito tante volte quanti erano i piatti e, in men che non si dica, aveva fatto il giro della tavola. Si era mangiato, così me l’hanno raccontata e io la racconto a voi, tutti e dodici i piatti di trippe e si era tracannato altrettanti quartini di vino. E Sant’Andrea delle Trippe benedisse l’omone che lo aveva così amabilmente onorato.
Vittorio Colombo