“Ai tre corner, rigore”: in Busa il calcio aveva le sue regole
Il calcio di una volta aveva regole precise. I due migliori giocatori non potevano essere nella stessa squadra. Chi dei due vinceva a “bim bum bam” iniziava a scegliere i giocatori. Se venivi scelto per ultimo era una umiliazione: nessuno ti voleva. Se le squadre erano sbilanciate, gli ultimi due o tre finivano nella squadra più debole. Anche la prima palla era assegnata con un “bim bum bam”.
I giocatori del Rione vicino erano nemici giurati. Anche quelli dell’altra Scuola erano nemici giurati.
Se si era in pochi si giocava ad una porta, chiamata “porta romana”. Le porte erano due sassi, due giacche o due cartelle. Il portiere, non visto, spostava il sasso e rimpiccioliva la porta. Il ciccione era sempre il portiere. Quelli che non capivano niente di calcio facevano le riserve o finivano in difesa. Nessuno voleva fare l’arbitro. Si giocava anche due o tre ore di fila e chi si lamentava veniva preso in giro.
Tre contro uno era fallo. Ai tre corner rigore. Non esisteva il fuorigioco. Quando la palla passava alta sopra la testa del portiere si discuteva se era gol no. Si alzava il braccio per misurare un’ipotetica porta. Si poteva far gol dal corner. C’era la punizione di “prima” e quella di “seconda”: Se facevi gol con quella di seconda non era valido. La “carica” al portiere, quando piangeva, annullava il gol. In caso di rigore si toglieva il ciccione e andava in porta il capitano.
Si diceva “libera” e si calciava in campagna, “Techel”(tackle) si diceva per tutti gli scontri. I più piccoli picchiati frignavano: “Lo dico alla mamma”.
“Scartare” era driblare, comunque non c’entravano le carte. Il colpo di testa con il pallone bagnato ti mandava a casa con l’emicrania. Se non tiravi il “fuori” con il pallone sopra la testa era “cambio”. Il portiere in usciva fingeva di sbagliare la palla e ti dava un cazzotto in testa.
Il portiere era un tuffatore ed aveva sempre le ginocchia sbucciate. Un calcione negli stinchi lo davi a chi ti stava antipatico. Facevi la “sforbiciata” in aria, come quella vista in tivù, e ridevi per non piangere dalla botta alla schiena. Tutti volevano essere Sivori e qualcuno, per distinguersi, Pelè.
Si dava fallo solo se il colpito iniziava a piangere. A volte l’arbitro, se c’era, veniva espulso perché “venduto”. Quando i grandi giocavano i piccoli “smammavano”. La partita s’interrompeva per far passare una macchina. In casi estremi, per far numero, giocavano le ragazzine. I più grandi, se giocavano le ragazzine, sputavano a terra e andavano via. Le ragazzine correvano di qua e di là e non capivano che cosa c’entrasse la palla.
C’era sempre quel tal vicino di campo che minacciava di bucare la palla. C’era anche l’altro vicino che, quando la palla finiva nel suo orto, la bucava. Il padrone della palla allora piangeva.
Se il padrone del pallone si arrabbiava lo metteva sotto braccio e se ne andava. Il capitano poteva ritirare la squadra. La partita finiva quando tutti erano sfiniti o era così buio che non si vedeva un tubo. Chi segnava per ultimo vinceva. Se c’era l’accordo la partita sospesa per il buio riprendeva il giorno dopo con il punteggio della sera precedente.
Che sfortuna, rompevi sempre le scarpe nuove che, aperte sul davanti, avevano “fame”. Andavi a casa così sudato e puzzolente che i tuoi ti passavano il piatto di spaghetti sulle scale.
La notte sognavi un futuro da capitano della Nazionale. E ti vedevi, nel sogno, con il numero nove sulla maglia azzurra. E la mano sul cuore.
(Nella foto i ragazzi della Fulgor S. Alessandro, primi anni Sessanta)
Vittorio Colombo