Che ci faceva il merlo nel frumento? Ma è chiaro no? L’uccello cantava lodi di Chiesa. Così al tempo del “latinorum” il solenne “Tantum ergo sacramentum” diventata, nel coro dei fedeli, il suggestivo “Canta il merlo nel frumento”.
E io che servivo Messa, e giravo il turibolo sopra la testa in un tripudio di faville quando poi andavo, per bisogni impellenti, nel formentòm, tendevo l’orecchio. Molto intonati erano merli e cornacchie. Il contadino invece sbraitava “For da lì che te smandre el zaldo!”
Era bello e misterioso servir Messa quando tutti parlavano in latino. I nostri nonni erano plurilingui: sapevano bene il dialetto, così così l’italiano e, come lingua straniera, c’era il misterioso “latinorum”. Che faceva tanto medioevo e "Nome della Rosa".
Gli uomini in Chiesa facevano finta. Momolavano suoni con tabacco o carrube. Le donne ripetevano a pappagallo formule misteriose che erano, di sicuro, Sacre lodi. Messa prima o bassa, poi il vespro al tramonto e, “for per la giornàa”, litanie e rosari. Per i quali si diceva “disem su ‘na corona” o un bel “pateravegloria”. Nessun sarcasmo, sia chiaro, ma tanta tenerezza e un po’ di nostalgia. La devozione popolare era comunque un valore.
C’erano, oltre a quello del merlo, altri classici. Anzitutto le Rogazioni, In processione per i campi invocando acqua dal cielo contro la siccità. Spesso le Rogazioni si facevano sotto una selva di ombrelli. E con il prete “miz soto el baldachim”. Canto ufficiale era: “Te rogamos audi nos” che diventava “Te rubà 'n tel sac de nos”.
In Chiesa le donne, bancata a destra e veletta nera, tenevano in mano il messale. Tutto scuro e antico, era per il “masimeterne”. Che, pieno di santini, era il passaporto per il paradiso.
Gli uomini “prendevano Messa” fuori, davanti alla porta. Aspettavano, per entrare, che fosse finita la predica. A volte, con l’autorità del chierichetto spedito dal prete, li “paravo dentro” sbatacchiando il campanello dell’elevazione. E dicendo “Dentro, che sem squasi al fum dele candele”. E loro giù a brontolare: “Prediche corte, luganeghe longhe!”.
Il ritornello che a noi chierichetti però piaceva di più era: “A morte perpetua”. Perché lì il coro si faceva maestoso e la Chiesa rimbombava nel classico: “A morte la perpetua”.
La perpetua, da noi, si chiamava “il Gazzettino”. Non saprei dire perché. Questa però ve la racconto. Un tizio, in canonica per cose sue, era nella stanza col prete. A un certo punto la porta si spalanca. Nel riquadro c’è la perpetua piegata a novanta gradi. Il prete sbianca. Lei dice: “Stavo pulendo la porta”. E il tizio: “Sì, co le rece”.
Da quel giorno ai funerali tutti guardavano la perpetua: E le dedicavano commossi: “Recchiam aeternan dona eis domine”.
Poi noi chierichetti imparavamo tante cose. Un esempio a caso. Quando il prete diceva “Regina concepta senza peccato”, c’era una pia veneranda che strillava: “Regina in cuccetta senza peccato”.
Erano i tempi in cui il buon Papa dava la benedizione “Furbi et orbi”.
Che dire poi del Martino, primo nome “Quartino”? Si usava allora mettere in fresca un bottiglione di quello buono nel fontanone. Quando il compagno di bevute del Martino, all'itemissaest si fiondava fuori per farsi un goccio contro l’arsura, lasciato solo pregava sconsolato: “Dominusvobiscum, non l’ho più visto, l’è na for ala fontana, l’è zà stinch come ‘na rana”.
Era, credetemi, commozione vera il momento del canto liberatorio: “A porta inferi”. Quando le donne del coro dedicavano alla Cantora, nota fungarola del Brione, il solenne “La porta finferli”.
Vittorio Colombo