Rubar ciliegie e bugie dalle gambe corte

La luna regala tenui bagliori che rendono dolce la notte di fine maggio. La luna vede un gruppo di ragazzini vocianti. Corrono a gambe levate per la campagna. “Scampa, scampa che se ‘l ne ciàpa…”. Il vociare è allegro e eccitato. Dietro, a qualche decina di metri, un omone ballonzola inseguendo la marmaglia. Stringe nella mano un bastone, ansima, smoccola bestemmie. Il contadino, el bacàm, urla minaccioso, menando bastonate al vento. “Se ve ciapo, ve spaco le gambe!” (Se vi prendo, vi rompo le gambe!) e poi: “Porco qui e porco là”. Ogni anno, nel periodo di passaggio dalla primavera all’estate, andava in scena il rito del “robar zirese”.
Rubare le ciliegie era non solo un piacere, era un dovere, una delle più belle avventure delle nostre stagioni verdi, una gioia per la bontà delle ciliegie, rese deliziose dalla trasgressione. Il raduno dei piccoli delinquenti avveniva davanti alla Chiesa. Il capo assegnava i compiti: da una parte gli arrampicatori, dall’altra i più piccoli che dovevano strillare l’allarme all’arrivo del contadino. Quando succedeva, si balzava a terra dall’albero e via a perdifiato, con il viso segnato dal succo rosso come indiani sul sentiero di guerra. I contadini più temuti avevano il cane che cercava di azzannarci i polpacci nonostante le difese a calcioni. Avevamo anche altri nemici. Di quelli di terra ho detto, altri erano invece di cielo. Uccelli maledetti scorrazzavano in compatte formazioni. Si tuffavano in picchiata tra i rami e le foglie del ciliegio e lo spolpavano letteralmente, e delle ciliegie lasciavano solo gli ossicini. Con gli uccelli era partita persa, ma anche il contadino aveva i suoi bei colpi di genio, nonostante avesse le scarpe grosse. A volte rivestiva il tronco di matasse di filo spinato. Impossibile salire, ma mai perdersi d’animo! Si faceva “scaletta”: uno saliva in piedi sulle spalle di un compagno e si avvinghiava a un ramo basso. Graffi a braccia e gambe e strappi a maglie e braghe erano comunque da mettere in conto. Ma non bastava. Si mettevano ciliegie in bocca e si giocava a sputarsi in faccia gli ossicini, ma, per fare bottino da portar via, si stipavano a mucchi anche all’interno della maglia, nei pantaloncini e, a mazzetti, anche nelle mutande. Abbracciando il tronco per scendere, le ciliegie si spiaccicavano. Diventavano poltiglia attaccaticcia. Arrivavi così a casa conciato da far paura: faccia e vestiti di un bel rosso appiccicoso. “Vi ho portato delle ciliegie” tentavi, ma eran dolori. Una volta un mio amico andò in missione tirandosi dietro il fratellino. Li sorprese il contadino. Il piccoletto non ce l’avrebbe fatta a scappare e, dunque, se ne stettero lì con le ciliegie in mano. C’era, per simili casi, una furberia ben nota, una scappatoia per cavarsela. Era quello il momento giusto per applicarla. Il contadino chiese rivolgendosi al grande: “T’ò ciapà, lazaróm! Chi sét che domam vegno da tó pare e fém i conti!” (Ti ho preso, lazzarone! Chi sei, che domani vengo da tuo padre e facciamo i conti!). Il mio amico, come da copione, aveva buttato lì un nome a caso. Facciamo che si inventò e sparò: “Rossi”. Il fratellino, guardandolo da sotto in su con aria severa, lo richiamò: “Ma sét mat? Noi ne ciamém Bianchi!” (Ma sei matto? Noi ci chiamiamo Bianchi) e, per far bella figura. snocciolò, tutto d’un fiato e orgoglioso, i nomi della mamma, del papà, la via e perfino il numero civico.
Vittorio Colombo
(Nella foto del 1959 i bambini della Filanda)