“El Rico Bechèr l’ha tirà su ‘l Diàol”
Siamo alla Grotta, frazione arcense incassata nelle pendici scoscese del monte Brione. In uno slargo, vicino alla stradina del paese, ci sono due case: una è la Feltrinelli e, proprio di fronte, distante pochi metri, l’altra. Nel bel mezzo c’è la fossa biologica che, piena di liquame scuro e maleodorante, è una tenebrosa piscina.
“El Rico Bechèr l’ha tirà su ‘l Diàol”… La voce si diffonde. In un lampo gli abitanti della Grotta si ammassano sulla stradina, come a teatro. Il Rico, al secolo Enrico Miori, macellaio forte e risoluto, se ne sta a un lato della fossa. Tiene con la destra una corda che sale in alto e scorre in una carrucola appesa ad un filo di ferro, tirato tra le due case proprio sopra la fossa. A tre metri d’altezza, imbragato alla fune, il Diavolo ha la forma di un teschio dalle occhiaie vuote e dalle corna minacciose; gronda sangue nerastro che gocciola in basso e finisce nella fossa piena di liquame, di resti, di arti e di budella di animali. Il Diavolo altro non è che il teschio di un bue enorme, di quelli giganteschi che faticavano al tempo delle saghe contadine. Erano gli anni del Dopoguerra e la fossa era il cimitero degli animali macellati dal “Rico Bechèr”. Il Rico aveva affinato la sua arte e i suoi coltelli da garzone di macelleria per poi, finita la guerra, macellare alla Grotta in assoluta anarchia. Per questo era tenuto sotto controllo da carabinieri e dazieri. Il cibo in quel periodo era razionato. La Grotta era un porto franco, frequentato anche dalle signore di Riva. Si era diffusa, infatti, la voce che alla Grotta si poteva acquistare carne di qualità senza dover rispettare i limiti allora imposti. Quando un daziere aveva detto, con aria minacciosa, al Rico: “Tu uccidi bestie di contrabbando”, lui raccontava di aver brandito un coltellaccio e “quel bel tipo l’è scampà a gambe levàe e nó se l’è pù vist”. L’episodio del “Diàol” esibito al pubblico come un macabro trofeo si verificò quando venne svuotata la fossa biologica con i resti della macellazione abusiva. L’apparizione dell’enorme teschio con le impressionanti corna aveva subito dato luogo ad un raduno epocale: erano venuti in molti da Sant’Alessandro, dal Brione, da San Giorgio, dal Linfano e dal Grez. E grande festa era stata, non già demoniaca, ma di popolo, con ettolitri di vino, mortadelle e grappa distillata di contrabbando. Il “Rico Bechèr”, persona assai stimata, nel 1960 aprì una macelleria in piazza a Sant’Alessandro, nella parte est della casa del “Milio Calzà Fadàl”, a un passo dalla Chiesa. Risuonavano ovunque i colpi fortissimi del coltellaccio, con il quale faceva a pezzi gli animali che poi, sezionati in “quarti”, venivano appesi a dei ganci all’interno del negozio. L’attività purtroppo durò poco. Il Rico lasciò questa terra il primo novembre del 1964, seguito nell’ultimo viaggio il 6 novembre dalla moglie Ines. Ma la fama di quel giorno del Diavolo alla Grotta e della festa popolare che ne seguì rimase a lungo nei racconti. Bimbetto con la testa piena di fumetti, la sera mi buttavo sul pavimento e infilavo la testa sotto il letto. La mamma allora mi estraeva tirandomi per un piede e io, tutto rosso, dicevo: “Ho paura che ‘l Diàol del Rico Bechèr, quando dormo, salti fuori da sotto il letto per mangiarmi il pisello”.
(nella foto “el Rico” davanti alla macelleria di Sant’Alessandro con la figlia Germana)
Vittorio Colombo
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