“Il Chiavatore” imbranato del Rifugio antiaereo rivano
Lo chiamavano “Il Chiavatore”. Gli è che, per tutti i Rivani, il signor L. F., dipendente comunale, era appunto il “Chiavatore”, non già per esuberanza sessuale, ma per via del fatto che deteneva le chiavi più importanti dell’intera Riva. Le chiavi erano grandi e pesanti, non per niente erano le chiavi del Rifugio antiaereo, che aveva l’ingresso principale alla fine del vicolo dell’Usignolo, ad un passo da piazza San Rocco. Il Rifugio in questione era il più grande ed importante della città. Quando suonavano le sirene d’allarme per l’incursione dei bombardieri alleati nei cieli gardesani, vi trovavano sicuro rifugio alcune migliaia di persone. Negli anni della Seconda Guerra Mondiale era il porto nel quale era possibile, per una moltitudine di cittadini, trascorrere ammassati, ma relativamente protetti, quelle ore pericolose.
L. F. era, a modo suo, un’autorità. Magro, pallido, con un modo di camminare barcollante, una vaga somiglianza per via del ciuffo ribelle con Stanlio, veniva ritenuto affidabile perché era uno dei pochi uomini del quartiere che non beveva. Aveva perciò ricevuto dall’Unione Nazionale Protezione Anti Aerea il compito di gestire l’ingresso al Rifugio. Il prescelto era fiero del suo compito e la titolarità dell’uso delle grosse chiavi lo inorgogliva non poco. In tempo di tranquilla routine tutto bene. Quando però le sirene squillavano l’allarme e da tutte le case del centro storico una fiumana di famiglie si riversava sulla porta del Rifugio, L. F. sobbalzava. Il cuore gli andava in gola e un tremore gelido dava il ballo di San Vito alle mani, che impugnavano le mastodontiche chiavi che teneva assicurate alla cintola. Il suo compito era, in quei momenti, il più importante di Riva. E lui ne era consapevole, ma questo, passato l’orgoglio dei tempi di quiete, si trasformava in una sorta di panico irrefrenabile. “Povero me! tutto sulle mie spalle!” pensava arrivando al Rifugio. Aperto il cancello, davanti al massiccio portone c’era già un rumoroso affollamento. “Il Chiavatore” con il chiavistello davanti al petto. Le sue mani alzavano la chiave del destino. Ed è qui che succedeva il dramma: i capelli alla Stanlio si drizzavano, il cuore stantuffava, le gambe facevano “Giacomo, Giacomo”. E le mani? Ecco… le mani tremavano come foglie al vento, e la chiave? Tentava di indovinare il buco, come fa di norma… ogni buon chiavatore. Ma il tremolio era così forte che la chiave sbatteva di qua e di là e sembrava fosse dotata di vita propria, recalcitrante come un mulo. Passavano i minuti, crescevano l’ansia e il terrore, ma la porta restava chiusa. Ogni minuto in più era un pericolo. I più prossimi cercavano di tenerlo fermo, bloccandogli le braccia. Dietro, la marea di “aspiranti rifugianti” rumoreggiava, spintonava, imprecava, e arrivavano urla inferocite del tipo “Chiavatore dei nostri coglioni!”.
Succede una volta, una seconda, una terza e avanti così. Una tragica pantomima. Le proteste arrivarono alle autorità comunali. Qualcosa andava fatto. Convocarono il poveretto e si fecero consegnare le chiavi.
Questa, amici, è la storia, vi assicuro vera, del “Chiavatore” rivano che, privato delle chiavi, piombò nella depressione più nera quando, scattato l’ennesimo allarme, si ritrovò anonimo nella folla che esprimeva ammirazione per un Marcantonio battezzato “Il Chiavatore Senza Paura”. Costui infilzava il buco della serratura al primo colpo e la porta si spalancava in un amen. Si udivano il “clic e il clac” e il gregge irrrompeva nel rifugio. E il Nostro? Era ormai un’altra persona e pregò, asciugandosi una lacrima, che una bomba cancellasse il mondo.
Vittorio Colombo