Teatro all’Oratorio, applausi al coniglio che scalò il Calvario

Vittorio Colombo22/01/20235min
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Al teatro dell’Oratorio la Compagnia Filodrammatica rivana metteva in scena la Passione sulla croce di Gesù, ma l’evento, di per sé altamente drammatico, si trasformò in una esilarante farsa vuoi per il carattere goliardico dei presunti attori vuoi per uno strepitoso coniglio giudicato da tutti il più bravo attore in scena. Tempi lontani, ma animati dall’irriverente spirito rivano. Gli anni Trenta erano agli sgoccioli e di lì a poco la guerra avrebbe portato il suo carico di dolori. Nino Molinari, per molti decenni successivi appassionato testimone della “Rivanità”, quella sera debuttava, come ebbe modo di raccontare, nella “Trilogia del Calvario”. Interpretava l’angelo che porgeva il calice nell’orto degli olivi. Era il momento clou di un dramma che avrebbe dovuto colpire il pubblico che gremiva il teatro dell’Oratorio. Il Tullio Rossaro era proprio un bel Gesù, sublimamente consapevole del proprio destino, mentre il Nino, che allora aveva una decina d’anni, doveva arrivare alla consegna in un crescendo emotivo che richiedeva tempi lunghi. L’angelo era fasciato da una veste immacolata, in testa una parrucca ad elmo ornato con riccioli dorati e dietro due ali grandi come vele.
“Tutto bene, o quasi, solo che dovevo starmene sopra un masso, come su un trespolo – ebbe modo di raccontare il Nino – La posa plastica, copiata da un quadro religioso, prevedeva che me ne stessi in bilico su una gamba sola, a mo’ di fenicottero. L’altra dovevo tenerla penzolante, sollevata a mezza altezza. Dopo un po’ avevo le visioni. Ero ormai allo stremo e la durata della scena richiedeva un quadro plastico che era eterno. Ho cominciato a sudare, poi a tremare, poi ecco spuntare le lacrime che mi scendevano a rivoli”. Era un Calvario. In prima fila stava seduto il suggeritore, don Quirino, che sbuffava fumo dal suo toscano. La nuvola pestilenziale “mi arrivava diritto in faccia. Piangevo come una vigna.
Ad un certo punto ho sentito una donnetta che, in prima fila, con compassione diceva: Porlaór, nó ‘l ghe la fa pù, adèss el casca zó”. E don Quirino: “Siora, sperénte che ‘l casca pù ‘n là, se no ‘l ne piomba adòss come ‘n sass”. Fosse tutto qui. Nel momento più tragico, quello del Gesù che in ginocchio porta la croce sulle spalle, irrompe a tutta birra da dietro le quinte un coniglio, grande come un cane. Fa un salto a zampe ed orecchie alzate davanti al pubblico, poi prende a girare in tondo, come una trottola, sul palcoscenico. Il Gesù lascia cadere la sua croce, cercando di acchiapparlo per le orecchione. Il coniglio spicca un balzo e piomba in platea. Ed è l’apocalisse. Le donne a gridare, i capelli dritti in testa, in piedi sulle poltroncine i ragazzi che urlano come matti per inseguire e infine catturare il coniglio nel suo momento di gloria.
Altre volte era successo, ma, lo sapevano tutti, non era sempre lo stesso coniglio. Quello che irrompeva di volta in volta sulla scena era uno dei tanti, uno della colonia di conigli che venivano allora allevati nel sottopalco del teatro Oratorio di proprietà della famiglia Malossini che abitava al piano superiore.
Verso la fine degli anni Trenta la Filodrammatica metteva in scena anche quattro, cinque recite annuali. Erano reclamizzate dal pittore Santini, ottimo attore, tramite una tela pendente dal campanile. Erano soprattutto commedie in costume e gli attori erano Cesare Arlanch, Guido Meneghelli, i fratelli Santini, Rossaro, Tonetta, Avancini, Sisler, Grandelis. L’Arrigo Dal Lago ne divenne il regista. Sopra gli attori, sotto i conigli. Così era… ed è per questo che, se in tutto il mondo si usava dire di un attore scalcinato: “Reciti come un cane”, allora a Riva si era soliti dire: “Te rècite come ‘n cunèl da corsa de l’Oratorio”.
Vittorio Colombo

 



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