La mitica scuola dei tuffatori rivani del “maestro” Ervino
Magari a scuola, quella con tanto di maestri e professori, non erano un granché. Ma c’è stata, ormai qualche decennio fa, una scuola a Riva infinitamente più affascinante, quella legata all’acqua, e in particolare alla sublime disciplina dei tuffi. Così è giusto consegnare al grande libro della storia popolare cittadina il capitolo dedicato all’epopea della “Università dei tuffatori rivani”. Il campus universitario era il prato della Rocca, l’ateneo era la Spiaggia degli Olivi con il “monumento al tuffatore” della torre-faro con i trampolini. Che, per non pagare il biglietto, bisognava raggiungere guadando a nuoto il canale. “Guardia piccola” o “Barilotta” che sequestrava i vestiti permettendo. Dal parco della Rocca, direzione Spiaggia, si partiva dunque, come ricorda Giancarlo Angelini tra i protagonisti di quelle imprese, con il tuffo nel canale a “l’inglesina”. Grande rincorsa. Balzo poderoso verso l’alto. Braccia e gambe rannicchiate a palla. Entrata in acqua di testa. Elegante ed acrobatico. C’erano tra gli altri, con il Giancarlo, il “Renè” Marchi, il Sergio Lattisi e il Péro Strobel. Tutti specialisti anche dei tuffi dal tetto della Madonnina dopo la galleria del Brione. Ma il massimo era buttarsi dalla “quarta”, il trampolino più alto della torre-faro della Spiaggia degli Olivi. Maestri erano il Pino Rodolfi, morto poi tragicamente in moto, “il Moretto”, il Brunetto Salvadori. Ma, negli anni Cinquanta, soprattutto l’Ervino Betta “Cecòm”, star e maestro della compagnia. Si presentava con un costume nero anteguerra con una spallina sola. Era un rito e tutti si fermavano a guardare. Cominciava con una serie di “carpiati” dalla “prima”, tanto per scaldare la platea. Poi i tuffi dalla “seconda” e dalla “terza”. La “quarta”, circa a dodici metri dall’acqua, era già Università. Per pochi audaci. Ma non finiva lì. Perché c’era “la cupola”, la sommità ad uovo della torre che era inaccessibile. E allora si saltava dalla ringhiera, almeno un metro sopra l’ultima pedana. Spesso inutilmente sbarrata da filo spinato. Lassù era gioco duro. Per pochi, anzi pochissimi. Chi si gettava dalla “quarta” o dalla balaustra rischiava grosso. Regole per non schiantarsi: ci si doveva buttare verso la Centrale, perché sotto l’acqua era più fonda, il tuffo doveva essere “ad angelo”, braccia allargate e riunite di colpo per l’entrata in acqua. Lo slancio doveva essere poderoso e verso l’alto. Solo così si trovava la linea ideale, a perpendicolo. Per chi sbagliava erano “spanciate” colossali e dolorose.
Tuffi nella memoria. Generazioni di rivani, come in un rito del coraggio, in anni diversi si sono tuffate dalla “quarta” o dalle “sparàngole”. Da anni non succede più. I fondali sono bassissimi. I trampolini chiusi. E allora sono i “reduci” a raccontare le belle imprese. Con Ervino Betta saltavano Bernardo, Andrea Guerrino e Gianni Elena, Franco Calzà, Sergio Moro, Franco Morelli, Memo Lutteri, Renato Marchi, Gianni Bertozzi, Giancarlo Angelini, Guerrino Betta, Renzo Policante, Giovanni (Giò) Torboli, Pierino Patuzzi (Tepa), Paolo Carli, Renato Malfer, Renato Picciani, Péro Betta, Carlo Paoli, Ezio Pederzolli (Ciccio), Luigi e Mario Hoffer, Franco Strobel, Francesco Brancaccio, Ennio Pederzolli, Delfo Delana, Gerardo Stefenelli (Aldo Parolòt), Filiberto Ballerini, , Guerrino De Lana, Anita Leonardi, Ornella Clauser, Angelo Tonelli (Costola), Antonio De Pellegrin, Franca de Pellegrin, Atos Planchestainer.
È una sorta di album d’oro della prestigiosa “Scuola rivana dei tuffi”. Farne parte è vanto e l’orgoglio di poter dire: “Io c’ero”. Di sicuro la lista è incompleta. Pronti ad aggiungere altri nomi di ardimentosi. Per i posteri, a futura memoria. Splashhh
Vittorio Colombo