La Mariota: “L’Inferno? È qui, su questa terra!”
“L’Inferno l’è chì, su ‘sta tera” rispondeva la Mariota a chi le chiedeva dell’Aldilà. Aveva 98 anni ed era alla Casa di Riposo di Riva quando, una decina di anni fa, se ne andò a cercare nel misterioso Altrove quel po’ di pace che strameritava.
Maria Boccagni, Mariota o per molti Mariolina, famiglia poverissima, a 14 anni venne mandata in Sicilia presso una famiglia ricca. Non sopportava la lontananza e dopo un po’ fece ritorno a casa. Fu mandata a lavorare nei sanatori di Arco dove svuotava le sputacchiere. Si beccò la tisi e fu gravissima, come molte volte nella sua vita. Vedendola così pelle ed ossa, denutrita ed ammalata di tisi, i medici le diedero pochi mesi di vita. Diverse volte, nel corso della sua travagliata esistenza, si ammalò gravemente. Veniva così data per spacciata, ma sempre se la cavò. Aveva sette vite come certe gatte ruspanti.
Andò a lavorare: puliva le padelle e i pavimenti, faceva i letti, senza avere uno stipendio fisso o degli orari. Se ne stava negli scantinati e nelle cucine e fumava come una turca e non mangiava. Viveva d’aria e di fumo. Aveva un marito, un omone grande o grosso, che la picchiava di santa ragione. Lui portava delle donne in casa e la Mariota doveva restare in strada, davanti alla porta, aspettando che lui facesse i propri comodi. Il marito le morì e fu per tutti una grazia.
La Mariota, come altre, ma più di altre, ha lavorato come una dannata, dall’alba al tramonto, spesso per un tozzo di pane, correndo di casa in casa, di ristorante in ristorante, senza mai risparmiarsi, consumando le ginocchia e la schiena. Tanto che la schiena non le si era mai raddrizzata e la sua figura, ad arco proteso in avanti, era l’emblema di un andarsene in giro senza tregua, mossa forse da quella che sentiva come una necessità: pulire tutta Riva.
La sua “specialità” era “sfregare” pavimenti. Ore e ore inginocchiata, ma non proprio per pregare. La chiamavano ristoranti, bar e privati, spesso facoltosi, ma soldi quasi mai o, se proprio, qualche spicciolo. Carità pelosa e delinquenziale. E, se proprio vogliamo dirla tutta, è giusto che il ricordo della disgraziata donna turbi ancora qualche coscienza, a quel tempo addormentata. O peggio.
Talvolta, quando finiva la sera di lavorare nei ristoranti, le davano un cartoccio di cibo, degli avanzi, e lei li portava a casa per il marito-padrone. Della sua vita privata non voleva mai parlare. Si sa che ebbe due figlie che morirono in tenera età, cosa che allora purtroppo poteva accadere. Stava bene, finché ha potuto restarci, nella sua casa nel centro storico di Riva, in via Marocco. C’era una signora che la “accudiva” e che, con la scusa di prendersi cura di lei, le rubava la pensione.
“Non siamo tutti uguali a questo mondo” diceva. Ed era una festa quando il medico, per cercare di allungarle la vita, la spediva per un po’ all’ospedale o in una casa di cura. Alle Palme era il massimo. Di malattia in malattia, lei andava avanti negli anni, caparbia. A sigarette e caffelatte.
Scuotendo la testa e brontolando, nel 1985 finì in Casa di Riposo. In carrozzella ripeteva la sua litania: “Mi vói nar a mé casa”. Quelli che le volevano bene, ed erano molti, la portavano in giro in carrozzella per le strade di Riva: molti le facevano festa. Lei ricordava nomi e cognomi. Ai complimenti rispondeva: “A chi giova?”. Era il “cui prodest” dei classici latini, che faceva di lei una filosofa inconsapevole, con addosso l’amarezza ed il disincanto della vita.
In Casa di Riposo non voleva saperne di starsene al suo posto, di essere servita. Voleva andare in cucina per lavorare, preparare e pulire. Faceva un sacco di storie quando la imboccavano; allora le forzavano la bocca, e lei insultava, a male parole, le infermiere. In prima fila alla Messa alla Casa di Riposo interveniva e spesso contestava padre Aurelio Cimadom, traducendo il Vangelo nella religione della strada e della vita agra.
La sigaretta era il massimo del piacere che la vita le riservò. E lei “ghebò” fino all’ultimo respiro di fumo benedetto. Sul punto di morire, venne alimentata con flebo. Chiudeva gli occhi e tutti dicevano: “L’è morta”. E lei allora scuoteva la sua faccia da Totò sdentata e fregava tutti. Fino all’ultima volta, quando la Morte pietosa decise che era anche troppo. E se la portò via.
Vittorio Colombo