Il giallo della bara di Torbole, dove dormiva il Barone depresso
“Toh, c’è una bara sul fondo del lago”. La indicarono, comunicando con lo sbatter di occhi dietro il vetro della maschera, i due sub Luciano Rigatti e Aldo Tajom Tavernini.
Era il 1992 e i due, in forza al Gruppo Sommozzatori di Riva, dovevano effettuare dei lavori in immersione nel golfo di Torbole. Successe a 40 metri di profondità, nello specchio d’acqua di fronte a casa Beust. Non c’erano dubbi. Quella che emergeva dalla melma era proprio una bara. Diedero l’allarme. In un amen il molo e mezza Tobole vennero transennati. La zona si riempì di Carabinieri, Poliziotti, Vigili del Fuoco, ambulanze, giornalisti e compagnia cantante. I sub del Nucleo sommozzatori di Trento si calarono e imbragarono la bara. Vene tirata su con le corde. Nessuna traccia di ossa umane. Era piena di sassi (foto Fabio Galas). Lo strano ritrovamento diventò un caso. La stampa ricamò e il mistero appassionò l’opinione pubblica.
Fatte le indagini si scoprì che la bara era appartenuta a un personaggio eccentrico, ben conosciuto a Torbole nei decenni tra le due guerre. Aldo “Tajom” Tavernini ebbe modo di gettar luce su tutta la vicenda. Quella recuperata era la bara personale di Friedrich von Beust, nobile tedesco, ultimo rampollo di un casato blasonato. I von Beust erano infatti approdati a Torbole seguendo la nobiltà asburgica che aveva scelto Arco come luogo di soggiorno.
Il barone Friedrich aveva ereditato dal nonno Costantin l’attuale Casa Beust. Era un personaggio colto, sensibile e amante di Torbole. Era però un’anima solitaria e tormentata. E per non farsi mancare niente soffriva di una grave forma di depressione.
Quando la governante andava dal fornaio per il pane fresco, alla domanda del “Pistor” su come stesse “el sior baròm”, spesso rispondeva che non stava molto bene. Come faceva a dirlo? Semplice: aveva dormito nella bara. E così sdraiato aveva passato, o trapassato, la notte.
Il barone era allora cosa nota, teneva a fianco del letto la sua bara. Oh, una cosa davvero signorile, foderata com’era di raso viola e decorata all’esterno con fregi d’argento.
Successe che la depressione fece il lavoro sporco. Il barone, adagiatosi nella bara, si suicidò con il veleno. Era l’anno di grazia, cioè di disgrazia, 1938. Sul comodino una copia del libro “La morte di Socrate”. Fonte d’ispirazione per il gesto estremo. Perché il suicidio? L’ipotesi più probabile: era disperato perché indagato dai nazisti come presunto agente inglese.
La seconda guerra mondiale scoppiò l’anno successivo. Casa Beust nel frattempo aveva conosciuto altri proprietari. Nel settembre del 1943 venne requisita dagli ufficiali tedeschi della Luftwaffe. Poi nell’aprile del ’45 gli ufficiali americani trovarono la bara in un ripostiglio, testimone Francesco Civettini chiamato per lavoretti di falegnameria. Incaricarono così un barcaiolo di portarla al largo e di affondarla con delle pietre nel golfo antistante Torbole.
Una storia così meriterebbe un film. Da brividi e suggestioni.
E allora… nei giorni di burrasca guardate casa Beust e ripensare al tenebroso Barone. Potrà capitarvi di sentire il vento ululate come dicesse: “Voglio la mia baraaa”.
Vittorio Colombo