Il Direttore del Giornale messo in fuga dagli uccelli
Si era nel 1980, Redazione del giornale “l’Adige” di Riva del Garda, di fronte ai Giardini Verdi, oggi Rurale di Ledro. Giunge a Trento questo direttore da Roma. Il “Romano” aveva il compito di traghettare il foglio in crisi dalla Dc a un nuovo editore. Il neo Direttore visita le redazioni periferiche. Viene dunque anche a Riva. Accogliamo un tipo basso e rotondetto, con una cravatta di marca e occhi furbi da furetto. Si innamora di Riva. Dice: “Spettacolo! Voglio arredarmi un ufficetto. Ci verrò a scrivere i miei articoli di fondo”. Lo portiamo da “Mobili Berlanda” ad Arco. Lui sceglie il meglio, tutto di design: scrivania, poltrona, lampada, scaffale e sciccherie varie. La Redazione rivana è fatta così: un paio di scalini esterni e si entra nel corridoio, a destra si aprono due locali con scrivanie, in fondo al corridoio c’è questa stanza vuota. “Perfetto” dice e in un baleno eccolo arredato dai mobili da rivista patinata. Nei tre mesi successivi Trento tace. E così, una cosa tira l’altra, si inizia a depredare l’ufficetto. Nei due locali di noi “peones” fanno bella mostra la lampada Flos, la scrivania, la biblioteca, eccetera. Nel primo ufficio viene messo il divano. Rosso cardinalizio. Se ne impossessa l’Urlo, un cane pastore che di cognome fa Morandi, come il suo padrone. Ci sta sdraiato tutto il giorno e, se uno si avvicina, lo scoraggia con lo sguardo.
Un brutto giorno il mio collega, affacciato alla finestra, lancia un urlo (non il cane): “È qui, sono qui!”. Ad attraversare la strada sono il Direttore e la moglie, piccola, rotondetta e con gli occhi da gallinella. Entrano, mano nella mano. Lui fa il saluto romano, senza però alzare il braccio. Scruta la bacheca al muro. Ci sono attaccate le prime pagine con, cerchiati in rosso, i suoi articoli. La sua rubrica si chiamava “Ripensandoci”. Il collega Nello Morandi li aveva corredati di scritte, vergate con pennarello, molto critiche, per non dire di spietato dileggio. Io, grande, grosso e pistola, mi metto davanti alla bacheca. Saltello di qua, seguendo gli occhi del capo. Faccio da paravento alle pagine come un Nurejev scemo. Il Direttore dice alla moglie, ma sottovoce: “È scemo”. I suoi “Ripensandoci”? In uno, ad esempio, aveva scritto: “Per strada, trovi un portamonete da donna. Dentro c’è un milione. Tu che fai?”. Chiaro che a Roma pensano ai Trentini come montanari decerebrati. È noto che la massaia trentina va a fare la spesa con un milione…
Va beh, il Capo spinge la moglie nel corridoio. La coppia si ferma davanti alla porta. Lui si gasa. Dice alla consorte: “Cara, questo è il mio ufficetto!” e spalanca la porta. È la fine del mondo. Cento uccelli, di ogni tipo, colore e dimensione, si mettono a strillare e a fare i loro versacci con volume a mille. Il casino uccellesco si sente fino al Bastione. Era successo che nei tre mesi di latitanza, vista la stanza vuota, il nostro collaboratore Remo Parolari vi aveva realizzato una voliera internazionale. Il Remo distribuiva il giornale agli abbonati. Era capo dei Combattenti e Reduci e, come attività parallela, aveva messo su una mega voliera di uccelli che poi piazzava. Dentro di tutto: merli, tucani, aquile, pappagalli, perfino un picchio. Si incrociavano, in una babele di canti, gorgheggi e strilli lancinanti. Con voli pazzi si scontravano sbatacchiando contro i muri. Da restare a bocca aperta. Erano i nefasti effetti di un ordine tassativo disatteso: quell’ammasso di volatili doveva stare nel buio completo. Se da una finestra o dalla porta entrava la luce davano di matto e strillavano come nella foresta amazzonica.
Quel giorno, accucciati nei nostri uffici, sentimmo passi, in uscita, nel corridoio. Lenti e penosi. Dalla finestra vedemmo, per l’ultima volta, il Direttore e la moglie entrare abbracciati nei giardini Verdi. Si dissolsero così nel tramonto, come avviene nel finale di ogni buon film western che si rispetti. Nel tripudio corale del concerto hard rock degli uccelli dello zio Remo.
Vittorio Colombo