La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso presentato dagli avvocati di Paolo Signoretti, imprenditore di Arco coinvolto nell’inchiesta “Romeo” che indaga su presunti legami opachi tra affari e politica. I giudici hanno ordinato la restituzione di tutti i dispositivi elettronici sequestrati all’indagato, tra cui computer, tablet, smartphone, chiavette USB e accessi a piattaforme cloud e account email.
Secondo i legali Giovanni Rambaldi e Stefano Mengoni, le modalità con cui era stato effettuato il sequestro erano prive di qualsiasi criterio di selezione. In particolare, la difesa ha denunciato la sproporzione tra la quantità di dati acquisiti e le reali esigenze investigative: basti pensare che solo nel Dropbox della società Heliopolis, riconducibile a Signoretti, erano stati sequestrati circa 8 terabyte di dati, equivalenti a oltre 50 milioni di pagine.
La Corte ha condiviso le argomentazioni della difesa, ritenendo che il sequestro fosse eccessivo e non sufficientemente motivato. In particolare, ha richiamato precedenti giurisprudenziali secondo cui è illegittimo acquisire indiscriminatamente dati digitali da un dispositivo elettronico se non sono indicate in anticipo parole-chiave, criteri di ricerca o finalità specifiche.
Il pronunciamento annulla due atti fondamentali dell’indagine: l’ordinanza del Tribunale di Trento che a dicembre aveva respinto la richiesta di riesame, e lo stesso decreto di sequestro firmato dalla Procura a novembre 2024. Questo potrebbe compromettere l’utilizzabilità di parte del materiale acquisito nell’ambito dell’inchiesta.
Anche un altro indagato, Riccardo Ricci, imprenditore quarantenne e socio della Heliopolis, ha ottenuto una decisione favorevole: anche a lui dovranno essere restituiti i dispositivi informatici sequestrati.
Con questa decisione, la Cassazione ribadisce un principio centrale: l’indagine penale non può sacrificare il diritto alla riservatezza se non in presenza di motivazioni concrete e proporzionate.